ISRAELE reportage 2003

di Antonio Gregolin                                                -© riproduzione vietata di testo e foto –

ISRAELE ONE THE ROAD

Capire Israele e la Palestina è come vedere attraverso una lente d’ingrandimento offuscata.

Intravvedi  appena i chiaroscuri, mentre quello che noi osserviamo da qua, sono solo i riflessi (spesso miraggi), di una realtà  tanto complessa da essere incomprensibile. Chi vive lo storico conflitto sa di essere continuamente plasmato dalla storia. Ma cosa realmente sappiamo del conflitto in Medio Oriente? Un reportage a stretto contatto con  arabi ed ebrei durante la Seconda Intifada. Aver conosciuto il dolore di due popoli, non basta ancora a dare delle risposte. E la tentazione resta quella del facile giudizio.

PALESTINA2004

E’ il medesimo “Welcome to…” scritto sui muri di Sarajevo, Grosny, come di tutte le città dove la guerra ha dispiegato le sue ali. Lo stesso è nella Palestina di oggi con un “Welcome” che esce dalla bocca di tutti, vittime e occupanti,  senza che però nessuno sia ancora stato capace di scriverlo definitivamente sui trattati di pace. “La nostra terra è occupata, cosicché,  ad ogni azione corrisponde una reazione!” è l’equazione che viene offerta a chi visita oggi i territori palestinesi dopo lo scoppio della seconda Intifada. Parole queste che pesano come pietre e si prestano all’ambiguità delle parti. Parole che molto spesso, qui anticipano le armi stesse,  perché  arrivano prima  dei proiettili o dei “istishhadi” i martiri-kamikaze.  Parole che diventano abitudine alla paura quotidiana: “Questa non è una guerra, ma occupazione…”. “La nostra non è più vita da ormai tre anni, – risponde la gente palestinese -, basta guardare come siamo ridotti…”. Ci sono immagini che col trascorrere  del tempo noi stessi ci siamo abituati: quelle dei bambini che sbucano dalle vie dei villaggi per sfidare i giganti corazzati a colpi di pietra. Degli omicidi “chirurgici” perseguiti dai raid israeliani. La distruzione di case e quartieri come ritorsione. E’  questa l’idea  occidentale che si è sedimentata nei decenni del crogiolo Medio Oriente: “Così si finisce col guardare sempre e solo da una parte…”, commentava un vecchio palestinese in un quartiere popolare di Tulkarem che nella pace “ho smesso di credere da anni!”.

Lui è vecchio, ma anche i suoi figli la pensano nella stesso modo: “Finché loro firmano protocolli, noi viviamo come topi in gabbia: senza lavoro, con poco cibo e continue vessazioni…”. Metafore per descrivere l’intrigo della realtà in cui quotidianamente vivono: “L’immagine è quella della favola araba che narra di un bellissimo uccello cui è stato negato di volare e cantare”. “Noi ci sentiamo come quell’uccello. Così, se la pace verrà, sarà comunque una pace senza giustizia”, spiega Yunes, 40 anni architetto palestinese di Tulkarem, laureatosi a Venezia, il cui cognome  chiede di essere  omesso per questioni di sicurezza . “ Di  questi  tempi, una foto o una parola di troppo potrebbero essere rischiosi…” dice lui. E’ la quotidiana  cautela di chi tenta di racconta la propria vita, convinto che chi è lontano non può comprendere il significato di dover vivere “prigionieri in casa”, per colpa dell’assedio.

“ON THE (MAP)ROAD”

Emerge subito chiara una cosa quando incontri la gente dei villaggi delle aride colline della West Bank (Palestina): “Com’è strano vedere dei giornalisti occidentali da queste parti. Dite sempre ciò che accade in Israele, parlate dei loro morti, delle loro sofferenze, ma difficilmente voltate le telecamere per mostrare come viviamo noi qui oggi!” “Welcome of Palestine…” ti ripetono. Tulkarem, Jenin, Nablus, Jerico, Ramallah, Hebron o Gaza sono città che raggruppate assieme formano un territorio non più grande della nostra Lombardia. Distanti una trentina di chilometri l’una dall’altra, coprendo l’intero tracciato in meno di due ore di macchina. Due ore che qui possono diventare due giorni, come due settimane proprio perché sei n Palestina: “ Qui il tempo non vale più– ribatte un tassista arabo-, questa è la terra  dove tutti sanno quando partono, ma non quando arrivano. O se arrivano…”. Basta un carro armato messo di traverso per passare ore interminabili sotto il sole desertico. Uomini, donne, vecchi e bambini, tutti hanno pari dignità e trattamento in attesa  dell’ordine di passare.  Va meglio se sei un turista (non certo per caso e per questo sospetto per gli israeliani ), e mostri il passaporto hai il vantaggio di ricevere il lasciapassare. Se poi sanno che sei italiano, i soldati israeliani si concedono anche all’ironia: “ Italia, Juventus, Milan, good. Good…” Così finisci con il lasciarti alle spalle tutti, dimenticando la sindrome psicologica da blocco stradale che qui è pane quotidiano. “Va così da tre anni, tutti i giorni, tutte le ore – risponde la gente per strada-, non ci resta allora che battere le piste sterrate tra le colline desertiche”, sentieri tortuosi percorsi da capre e macchine insieme, difficilmente controllabili dall’esercito israeliano, dove trovi l’altra Palestina che in pochi conoscono.

L’ASSEDIO.GLI ASSEDIATI. GLI ASSEDIANTI

Sono ormai tre anni che i miei figli vanno a scuola solo quando i carri armati glielo permettono”, risponde una giovane mamma araba. Il parco giochi, è per tutti un desiderio inconfessato. Ci si accontenta del poco che l’assedio lascia passare. Si gioca con tutto e diventa quasi un gioco  anche tirar sassi contro i carri armati o jeep dei soldati israeliani di pattuglia. Il loro arrivo è un appuntamento fisso per molti bambini. Pochi secondi e la strada si riempie di bambini e ragazzi, loro che hanno preso il posto degli adulti della prima Intifada. I carri armati invece  sono sempre gli stessi: si fermano e puntano minacciosi contro i bambini che sembrano come cavallette. Un gioco che però può farsi mortale. Ma stavolta niente spari e dunque niente feriti o morti: solo per oggi.  Poi tutto torna nella calma apparente.Entriamo allora in un cimitero di Tulkarem dove Nassir conosce una ad una, le tombe dei martiri, come loro chiamano i caduti: “Questi sono morti una settimana fa, un altro è stato colpito solo ieri in una sassaiola come quella di prima.” In una  vicina tomba, un ragazzino ha lasciato tra i fiori secchi uno strano oggetto: una bomba a mano resa inerte, utilizzata come giocattolo. “Qui tutti imparano a vivere alla giornata, – risponde Yunes il mio accompagnatore- senza più abitudini o programmi per il futuro. La stragrande maggioranza dei palestinesi, non lascia le proprie città da ormai tre anni nonostante abbiamo parenti o amici a pochi chilometri da qui”. Singolare storia quella di Abdul Sabbah, 29 anni di Tulkarem, promessa sportiva del calcio che solo tre anni fa militava in una squadra italiana di serie “C”. Lui racconta di essere tornato dall‘Italia per una visita ai genitori poco prima dell’inizio delle ostilità. L’assedio l’ha colto di sorpresa e costretto a rimanere qui. Un anno, poi due, ora è al terzo e lo si vede dalla pancetta che mostra per dire che non è più in forma: “Ecco come mi sono ridotto, – risponde Abdul-, niente più allenamenti o palestra. Insomma, niente più calcio e carriera. Niente più futuro o sogni per me!”, Così oggi trova sostegno facendo svariati lavori in città: “Niente d’importante, ma in ogni caso mi considero un privilegiato, giacché l’85% dei miei coetanei  è disoccupato. Ma qui hanno ucciso il mio sogno…”. Yunes invece ha chiuso il suo ufficio d’architettura due anni fa: “Nessuno ha più soldi per pensare ad una casa. Molte costruzioni infatti, sono ferme da tre anni. L’occupazione militare,  oltre ai morti ha causato un collasso di tutta l’economia locale. Nessuno va più a lavorare in Israele. Nessuno può andare o venire dall’estero. Chi vive qui ha solo un’idea fissa: sperare che l’assedio abbia presto fine!”. A far da padrone alla vita quotidiana, qui è sempre il coprifuoco imposto dai militari israeliani: “Non ci resta che obbedire – risponde sarcastico un commerciante-, così  invece di aprire il negozio restiamo a casa a fare figli. Io ad esempio, sono arrivato a sette: gli ultimi tre li considero come figli dell’Intifada, per metà miei e per metà di Sharon… ”

LA GUERRA  SEGRETA DEGLI ULIVI

Chi l’avrebbe mai detto che proprio gli alberi della pace diventassero bersagli di guerra?  L’ulivo è vita, ricchezza, bellezza. Vivono su questa terra prima ancora degli israeliani e palestinesi, ma oggi basta il rumore di un bulldozer per sradicare anche questa certezza: “Li rubano gli israeliani – accusa un contadino arabo-, che arrivano nei nostri campi con le ruspe e i camion per trasportare gli ulivi al di là del confine”.

Un confine per niente definito politicamente, ma già reale anche sul piano morfologico:  quello ebraico, è lussureggiante con i “moshav o kibbuz” dove l’agricoltura è un segno di eccellenza della promessa israeliana di “fare fiorire il deserto”. In Palestina invece, il terreno è aspro e il lavoro segue i ritmi agresti tradizionali. “Gli ulivi sono per questo il nostro unico tesoro. L’olio e il bene più prezioso che ora  ci vogliono rubare…” ripete l’anziano contadino.

E i segni di questo scempio sono visibili dalla strada: “In quelle buche c’erano i miei alberi, oggi finiti chissà dove?”.  Un dramma silenzioso che si piega dinnanzi la forza dei mezzi militari. Così finisce con l’essere “sradicata” anche la storia di questi vecchi contadini.

Così la guerra degli ulivi continua, ma la paura per i contadini della Palestina è anche un’altra: finire sotto il tiro dei coloni, proprio quando loro vanno  nei campi: “E’ successo – spiega il contadino – che israeliani degli insediamenti, abbiano ferito o ucciso nostri lavoratori mentre raccoglievano le olive.” Sangue tra gli ulivi, laddove la parola Intifada (cioè risveglio), si vorrebbe fosse più semplicemente un risveglio da quella  paura di morire tra gli  alberi della pace.

IL MURO DELL’APARTHEID

Cemento armato alto sei metri. Operai che lavorano sotto scorta armata, come è normale che sia in Israele per chi è impegnato in opere pubbliche. Qui si difende tutto, anche un muro che sta per nascere. Alto 6 metri e lungo complessivamente 350 chilometri, la nuova “barriera” che dividerà israeliani dai palestinesi, sarà tre volte più lungo e due volte più alto del “Wall” di Berlino. Da un anno (2004)  la sua costruzione prosegue inesorabile. Nemmeno nei colloqui di  Aqaba si è parlato del muro. Tutti lo osservano, ma pochi ne parlano. In tanto, il muro non sì ferma…

Dove il muro passerà, le ruspe spianano una striscia di terra  sufficiente per otto corsie stradali. Una barriera di cemento, che, forse, sarà  molto più di un divisorio. Un confine di Stato già deciso unilateralmente. Per ora nel bailamme dei dialoghi di a pace,  che qui nessuno sembra più seguire, è l’unica cosa certa e visibile a tutti. Tulkarem. Jenin o Gerusalemme allora, come Berlino? L’idea è quella, con la promette  di far diventare  tutto ciò il più tecnologico “wall” del mondo: fili elettrici, sensori, raggi infrarossi, fossati, telecamere, torrette saranno poste da qui al 2005 (data certa di fine dei lavori) , dove nessuno potrà avvicinarsi per scrivere sul  muro: shalom o salam.

VITA DA PROFUGHI

I profughi di allora, della prima Intifada, sono i vecchi di oggi. I figli di oggi invece, sono la memoria degli esuli di allora. Tutti però hanno in comune  il titolo di profughi. Ciò significa essere senza passaporto,  carta d’identità, ma  figli riconosciuti di  un passato storico che pesa sugli accordi di pace di domani. Oggi migliaia di persone che hanno trasformato le tendopoli in quartieri di cemento. Agglomerati di palazzi e case, facili  bersagli delle rappresaglie israeliane. Edifici mai terminati che dal ’48 ad oggi, sono parte integrante delle grandi città palestinesi. Dedali di stradine, di case porta a porta, di vite unite o separate da pareti quasi trasparenti, dove è rischioso avventurarsi da soli nella giungla dei disperati.

Là, dove macchina fotografica è vista con sospetto, come se fosse un arma: “Così gli israeliani – ci racconta una donna del campo di Jenin-, sono camuffati da giornalisti e fotografano. Poi, arriva l’esercito e porta via i nostri figli e colpiscono i nostri uomini.” La paura è anche quella di parlare o essere fotografati. I sospetti non mancano, anche se poi la diffidenza della gente spesso  viene superata davanti ad un caffè arabo. Qui nessuno può  programmare nulla:  giornalisti inclusi. Arrivare a Jenin, all’estremo nord della Palestina, vuol dire aspettare per ore al check-point militare.

La città viene costantemente riaperta e chiusa da ormai 135 giorni d’assedio totale, come ci dice al telefono  Belal Altaher che dirige il centro ospedaliero Patient’s Friends Society di Jenin. Lui arriva a prenderci con una ambulanza, spiegando ai soldati che siamo sotto la sua protezione. L’ospedale è il virtuale confine che separa il più grande e conosciuto campo di profughi di Palestina. Quindicimila le persone che ospita, buona parte dei quali sono sfollati del 1948. “Per la stampa israeliana si tratta di un covo di kamikaze…” ma per il dottor  Belal è gente comune che chiede di essere aiuta. “L’assedio ci sta sfinendo anche sul piano sanitario.

Negli ultimi mesi si sono ripetuti gli scontri armati e le risposte non si sono fatte attendere. Sono state colpite le stesse ambulanze, mentre  i carri armati non le hanno risparmiate schiacciandole come  fogli di carta.” Al centro del campo, una piazza sterrata sembrerebbe il centro del quartiere: “Qui invece sorgeva un anno fa, 200 case andate distrutte dagli israeliani  – risponde il dott. Belal-, lasciando solo polvere e macerie. Il massacro causò 68 vittime (stime palestinesi N.d.R) distruggendo 600 abitazioni e danneggiandone altre 400. “I carri armati non chiedono il permesso! Se vogliono passare, ti distruggono la casa, oppure la cucina o la stanza da letto”.“Sta calando la sera, è meglio tornare – ci raccomanda il dottore-, sappiamo per esperienza  che questo coincide solitamente con l’inizio del coprifuoco. In tre anni  sono stati bel 115 i giorni di isolamento totale che la gente di Jenin ha dovuto sopportare. Viviamo così, ma questa non chiamatela vita!”.

IL SACRO CHE CONVIVE CON IL “MOSTRO”

Un botto sinistro,improvviso, a pochi metri da me, squarcia l’atmosfera cittadina di Gerusalemme di un assolato meriggio di giugno, seguito da attimi di silenzio profondo in cui niente sembra potersi muovere. “E’ lui…”, si sente dire qualche istante dopo dalla strada. Poche parole per farti capire di essere caduto nell’inferno biblico della “Geenna”. Sono passate da poco  le 17 di mercoledì 11 giugno 2004 e la centralissima Jaffa Steet è affollata di traffico come sempre. Tanto viva quanto dannata: in soli due anni, dodici attentati e decine di morti. Un giovane palestinese  elude la sorveglianza travestito da ebreo ortodosso, mescolandosi tra la convulsa folla  del grande mercato Mahane Jehuda.

Impossibile distinguerlo tra la moltitudine omologata degli  ebrei ortodossi Haredin col cappello e cappotto  nero. Il giovane attende  l’autobus numero 14  sapendo  che avrebbe atteso una sola fermata, quella successiva, per compiere una strage in cui sarebbero morte 17  innocenti. E’ il solito macabro rituale del suicida-cacciatore in cerca della ignara preda seguendo il motto: colpire ovunque e chiunque. Il boato è sordo, paragonabile ad una scatola di fagioli con dentro un petardo, a tal punto che la deflagrazione spegne sul nascere  anche le fiamme spigionate dalla esplosione.  I vetri infranti delle finestre dei palazzi vicini completano la scena dell’orrore. Poi  d’ improvviso, il disarmante silenzio tipico di questi istanti.

Anche il tempo si dilata in quei brevi attimi. Sai di essere  passato di lì solo pochi minuti prima. Immagini di  aver sfiorato l’attentatore ed essergli passato a fianco.  Qui il dramma, porta l’espressione di tante  persone comuni. Comune come è spesso  l’attentatore, che compie un “rito” già tracciato da altri con la stessa vile dinamica di morte. A Gerusalemme c’è chi muore e chi vede morire. I commercianti del quartiere dal canto loro sono stremati. Alcuni hanno scelto di chiudere definitivamente l’attività: troppo duro e rischioso dover lavorare così. In quegli istanti, tu straniero non capisci o non  sai capire. E’ una donna ad urlare: “E’ lui…”. Prima ancora di vedere quanto è accaduto, sa già udendo quel suono sinistro che il “mostro” è tornato per strada.

Si va così ad orecchio anche per distinguere un attentato: per capire se si tratta di un autobus o uno sparo tra la folla. E’ l’abitudine a fare da maestra, tanto che  i commercianti di Jaffa street in questo si definiscono “specialisti”. L’autobus sventrato dista appena cento cinquanta metri. Dal silenzio al caos ordinato è solo questione di attimi. Tutto, anche nei soccorsi,  sembra essere già ampiamente collaudato e puntuale.

Il suono dei cellulari di chi chiama da casa copre quello delle ambulanze che fanno la spola  dai vicini ospedali.L’angoscia della gente qui si affida a quello squillo per sapere se sei vivo. “Via tutti…”, grida la polizia per paura che vi sia un secondo o un terzo attentatore, nascosto tra la folla come già dimostrato n precedenti attentati.. Arrivano i “rabbini” addetti alla pietosa raccolta dei brandelli di carne sparsi tutto intorno. Le ambulanze portano via i feriti. C’è chi grida e si dispera. Cultura religiosa e laica si mescolano in quella strada dove i cadaveri sono come corpi michelangioleschi. Morire per strada in Israele è una certezza quotidiana. Ma tutto passa  e per oggi le vittime possono bastare: “Almeno per alcuni giorni – risponde cinicamente un ebreo a pochi metri dall’attentato-, possiamo dormire tranquilli. Prima che tutto ritorni…”

L’ANTIDOTO AL DOLORE

C’è una cosa che la nostra televisione non ti può mostrare con le  immagini di un attentato kamikaze. Lo smarrimento che si prova sapendo che la tua vita è costantemente sotto tiro. Stress da attentato è la sindrome più comune. Devi così camminare osservando chi ti passa affianco. Evitare i luoghi affollati come pub o ristoranti. Sei perquisito prima di entrare in farmacia o in un supermercato. Il tutto in nome di una sicurezza nazionale che è “antidoto e malattia” collettiva. Già  alcune ore dopo l’ennesima strage, arrivano i mezzi per sostituire il prefabbricato in cemento e plastica che costituisce la fermata degli autobus. Sul posto rimangono per terra solo candele. Il giorno seguente, come se niente fosse successo qualche ora prima, riecco le persone sedute sul medesimo  posto dove si trovavano le vittime.

I bus tornano a circolare e le persone riempiono nuovamente i bistrò: “E’ la disperata voglia di continuare a vivere, nonostante tutto…” risponde una giovane commessa. Anche i giovani tornano nei loro soliti luoghi di sempre. “Ma il dolore rimane nascosto dentro. Invisibile ma presente in tutti noi.  I  17 morti di ieri non sono le uniche vittime innocenti di questo conflitto – ci spiega  Zehava  Vider, ebrea di 48 che ha perso l’intera famiglia in un attentato-, dobbiamo ricordarci anche di chi rimane in vita come testimone che porterà il peso della storia. Siamo noi quei testimoni violentati dalla morte e costretti a vivere. Noi siamo i famigliari delle vittime che aumentano il numero dei disperati futuri. Noi che siamo vivi…”.

IL DOLORE DELLA PACE

Due incontri straordinari che hanno in comune un fatto tragico: il padre  di un giovane kamikaze arabo, e la madre e moglie di una famiglia ebrea sterminata nello stesso attentato.

Lui è un anziano palestinese costretto a vivere con la sua numerosa famiglia in un angusto appartamento alla periferia di Tulkarem, dopo che la  sua casa di tre piani è stata distrutta dai buldozer  come rappresaglia israeliana, perché il giovane  figlio si è fatto esplodere compiendo una strage all’Hotel “Parking” di Netanya, un anno e mezzo fa. Sterminò allora 33 israeliani, ferendone 80 feriti. Fu uno degli attentati più efferati della Seconda Intifada,  non solo per l’alto numero di vittime, quanto per il particolare momento di festa che fino ad allora garantiva tra le parti una “tregua morale”. Zehava Vider, ebrea di cinquant’anni vive a Beqaot, un blindato e florido insediamento israeliano posto sulla sommità di una brulla collina sassosa, lontana cinquanta chilometri da Tulkarem.

Viveva lì con la sua famiglia, prima di diventare una testimone oculare di quell’attentato kamikaze che gli  ha decimato la famiglia: “Sono una sopravvissuta – risponde Zehava- , visto e considerato che oggi della mia famiglia siamo rimaste solo in due. Ho perso mio marito, la mia figlia più giovane, il mio futuro cognato e gravemente ferita l’altra mia secondogenita. Da  quel momento là,  la mia non è più vita…”. Due genitori e due testimonianze  a confronto, separati solo da check-point e un deserto che tra loro è sterminato più che mai .

IL PADRE CHE INNEGGIA AL MARTIRE

“Sono il padre di un “istishhadi”, un martire della resistenza palestinese e ne vado fiero -mi spiega subito l’anziano Abdel  Basit-, perché mio figlio sarebbe comunque morto per mano israeliana. Era ricercato dai servizi segreti solo perché tentava di fuggire a Bagdad per unirsi in matrimonio con una palestinese irachena. Otto mesi prima dell’operazione (l’attentato kamikaze Ndr.), mio figlio era scomparso. Da allora non l’ho più rivisto. Nessuno della mia famiglia  sapeva  quello che avrebbe poi compiuto a Netanya.” “E’ stata una sua libera scelta, immolarsi per la causa palestinese”. “Se me l’avesse chiesto – sottolinea il padre-, gli avrei risposto che questa non è una questione famigliare, ma individuale. Ha fatto quello in cui credeva di più!”.

“Non si può morire per una casa o per la terra – risponde Adlel Basit- , diverso è se lo  fai per il tuo popolo quando si trova oppresso da una forza militare che ci occupa da tre anni. Quello sì è un sacrificio che piace a Dio. I nostri martiri sono eroi e benché questo sia un onore, nessuno potrà mai più ridarmi la gioia di mio figlio.” “Eccolo Abdul, – dice il padre, mostrandoci le foto del manifesto che inneggia al suo martirio, in tenuta da kamikaze-, un ragazzo come tanti altri  che, come tanti altri, è rimasto vittima della prepotenza israeliana. Se questa è la “fabbrica dei kamikaze”- come dite voi occidentali-, è perché  a distanza cinquant’anni nessuno ha voluto porre fine alla nostra tragedia personale e sociale. Solo con i nostri martiri riusciamo a parlare e farci ascoltare per spiegare al mondo le nostre ragioni. E dire che tutto potrebbe finire immediatamente, se solo Mr.Sharon ritirasse all’istante il proprio esercito dalle nostre città. Scoppierebbe immediatamente la pace…”.

LA MORTE NEGLI OCCHI DELLA MADRE

Di quell’angelo della morte palestinese, Zelava Vider colona israeliana presente sul luogo dell’attentato suicida costata la vita a 33 persone, tra queste tre suoi famigliari, non ricorda assolutamente nulla: “Di quegli istanti – racconta Zelava Vider – ricordo solo il buio e la sensazione di bruciore nei capelli. Quel giorno, eravamo tutti seduti attorno al tavolo. Felici come lo sono le famiglie ebree durante la festa di Pasqua “Pesach”. Vidi un buio improvviso e pensai ad un guasto, pochi istanti dopo un barlume di luce illuminò il corpo completamente insanguinato di mio marito riverso sul pavimento. Vicino a lui mia figlia  col il suo fidanzato straziati, mentre la figlia maggiore ferita, rantolava dal dolore. Non sapevo il perché io fossi ancora in vita. Non sapevo cosa stesse accadendo e se quello fosse l’inferno in cui ero caduta”. Il suo calvario continuò nei giorni successivi l’attentato: ” I miei cari -racconta la donna- ,  morirono uno ad uno nei  vari ospedali di Netanya. Ebbi solo la fortuna che mio figlio quel giorno non fosse lì con noi. Si salvò solo una delle mie due ragazze, nonostante le gravi ferite subite. In un solo  attimo la mia vita è cambiata. La mia famiglia distrutta…”. “Oggi è solo il fanatismo di pochi che impedisce la nascita della vera pace – ammonisce l’ebrea Zehava-, io non odio i palestinesi per aver sterminato la mia famiglia. Semmai, non perdono quel palestinese. La colpa è soprattutto delle loro autorità politiche che si arricchiscono con i soldi destinati al popolo palestinese. Serve che l’Europa  controlli e fermi i finanziamenti destinati alle scuole, asili e ospedali palestinesi, fingendo di non vedere come quei soldi finiscano col finanziare la lotta armata e gli stessi terroristi. Ditemi perché il loro leader Mr. Arafat, è tra gli uomini più ricchi del mondo, mentre il suo popolo è ridotto alla fame?” “Alle mie domande, so che nessuno  mai saprà darmi una esaustiva risposta -sottolinea la madre ebrea-,  dopo che ogni mattina, alzandomi mi chiedo, perché? Mio marito ha donato gli organi, i cui reni sono andati ad una donna palestinese.  Ho incontrato quella donna araba. Ci siamo guardati e abbracciati. Ma non posso perdonare chi invece, festeggia offrendo cioccolatini per strada, ogni qual volta  un uomo semina morte. Se poi  dovrò lasciare questa terra in cambio della pace, sono pronta a farlo solo in cambio di una sicurezza vera.” “Posso immaginare quel suo dolore di madre e moglie – gli  risponde da Tulkarem l’anziano Abdel padre del kamikaze -, e gli vorrei dire che mi dispiace molto. Ma vorrei che sapesse come per colpa di uno, oggi gli israeliani continuino a  far ricadere le colpe su tutte le persone innocenti della mia famiglia. Sono cinquant’anni che preghiamo per la pace, senza che nessuno mai porga ascolto  alle nostre suppliche…”.  E se la pace arrivasse, gli chiedo: “Magari…” rispondono i due genitori con gli occhi che parlano più ancora delle loro stesse parole.

L’ESODO… DEMOGRAFICO

I numeri lo confermano. Anzi, le previsioni israeliane sono allarmistiche: entro il 2005 la popolazione ebrea sarà raggiunta, se non superata, da quella palestinese. Ciò vuol dire che presto in un territorio grande come il Nord Italia dovranno convivere quasi 9 milioni di persone divise a metà. Un problema  più che reale, visto l’impegno con cui stanno cercando di  dare una soluzione le autorità israeliane. Al continuo flusso di ebrei che fanno ritorno nella “terra promessa”, arriva il sollecito d’Israele che concede nuovi terreni per i rientri, soprattutto di ebrei russi. Per contro, è cresciuto il numero di cittadini che chiedono di lasciare il Paese. Basta  osservare la fila di centinaia di persona dinnanzi all’ambasciata americana di Gerusalemme, per capire  che vivere da israeliano non è cosa facile. Lo scontro è anche politico dove l’ala moderata accusa i conservatori di non volere la pace, considerandoli i responsabili  della fine di  Rabin. I conservatori  fanno invece appello a tutta la dialettica tradizionale per evocare i diritti sulla che essi hanno sulla loro terra promessa. Non a caso il “No” di Sharon  alla richiesta palestinese per la sospensione della costruzione del muro che dividerà in due il territorio, continua a fare il gioco del gatto e la volpe. Se da una parte la paura  per i palestinesi rimane quella della deportazione come ultima soluzione, da parte israeliana non ci sono sconti per la sicurezza in Israele sul piano delle trattative per il tavolo di pace.

A distanza di otto anni da questi racconti, Arafat e Sharon non fanno più parte della scena attiva della storia. Eppure, nulla sembra essere  cambiato per questi popoli. In quegli anni si auspicava l’uscita di scena dei  due antagonisti  politici per costruire la pace. Oggi che quella storia si è conclusa, la realtà mostra che nulla è cambiato e/o  s’intende  cambiare. Così la pace seguita a parlare la lingua delle pietre .

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