Il GIAPPONE DELLO TZUNAMI

Di Antonio Gregolin                                   -©riproduzione vietata del testo-

“IL MIO GIAPPONE FERITO, MA NON PIEGATO”

Le testimonianze di due missionari vicentini (raccolte il 17 marzo scorso) che vivono da molti anni in Giappone, e qui  ci  raccontano il coraggio di un popolo colpito dalla natura, ma che alla stessa natura riserva rispetto e devozione, come espressione di un profondo senso di civiltà, efficienza e organizzazione.

Nel marzo scorso la terra ha scosso il Giappone e fatto tremare tutto il mondo per l’incubo nucleare. Terremoto, tzunami, rischio nucleare, si sono mostrati come un inferno. Il resto è cronaca di questi giorni. In Giappone da secoli vivono fianco a fianco giapponesi,scintoisti e buddisti, ma anche quei cristiani molto spesso seguiti da missionari giunti dalla nostra terra. Il francescano Claudio Gianesin, vicentino di Belvedere di Villaga, laureato in lingua e letteratura giapponese, è un frate-missionario che ha radici profonde col Giappone, dove vive da oltre quaranta anni. Figura di riferimento per la chiesa locale, il giorno della tragedia lui si trovava nel suo convento di Kitaurawa, vicino la città di Urawa-ku a nord di Tokyo, duecento chilometri dalla centrale atomica  di Fukushima.

Anche qui la terra ha tremato come non mai. L’idea potrebbe essere quella di un mare in burrasca pur mantenendo i piedi per terra. Ma ancora non basta a comprendere quel terremoto del marzo scorso, inimmaginabile anche per me che da quanta anni vivo su questa terra. Figuramoci doverlo descrivere ad un occidentale! Nel nostro convento non ci sono stati danni rilevanti, anche se gli edifici sembravano “navi” sbattute dalle onde. Anche ora, c’è un “rullio” della terra, ma anche a questo ci stiamo abituando. Immagino che molti occidentali siano stati tratti in inganno dalla calma apparente (cioè, mancanza di atteggiamenti “altamente emotivi”) con cui la popolazione giapponese tutta come anche  gli scampati della catastrofe abbiano affrontato la tragedia e il disagio umano e psichico che ne è conseguito. In realtà, la situazione è molto grave, e la calma della nostra gente maschera solo una grande paura interiore nel rispetto delle tradizioni locali”. “Sebbene la relativa mia lontananza dalle zone sinistrate (300 km), subito dopo i fatti il nostro dramma è stato quello di vederci impossibilitati dal portare aiuto. Se mandavamo aiuti materiali, c’era l’impossibilità di trasportare la merce a causa delle vie di comunicazioni danneggiate o fuori uso verso il nord. Queste erano ridotte ad una palude o sono come un enorme campo di rifiuti. C’è da ammirare la maniera con cui la popolazione colpita ha saputo rispondere con coscienza agli appelli di allerta diramati subito dopo il terremoto. Ecco a cosa sono servite le continue esercitazioni anti-disastro che vengono effettuate regolarmente ogni anno in Giappone cui partecipano tutti, compresi noi frati. Parlando con i frati di questa fraternità, ci dicevamo che ci vorranno alcuni mesi prima di riuscire a capire per intero l’entità del disastro. Impossibile per ora parlare di ricostruzione. Si profila un periodo duro  quanto lungo per l’intero Giappone, ma penso che conoscendo i giapponesi da oltre quarant’anni, loro ce la faranno”. “Fermarsi allarmati non giova a nessuno e non farebbe che ad aumentare lo scoraggiamento. Certamente qualcosa è cambiato e probabilmente ciò durerà settimane, mesi o forse decenni a quanto si sente dire in giro sulla radioattività”. La vita qui è diventata obbligatoriamente più sobria per tutti. Usiamo i nostri piedi quando i mezzi di trasporto sono fermi. Nella stessa Tokyo ho avuto l’impressione per molti giorni come se fossimo durante la grande pausa del capodanno, per tanto si era spopolata. Scomparsi gli ingorghi del traffico a cui sono abituato quando vivo in città. I pochi autobus che passano  sono quasi vuoti, taxi compresi. Quello che  ha preoccupato tutti qui, è stata la mancanza d’informazioni precise sulle radiazioni e contaminazioni nucleari. L’idea più comune tra i giapponesi ed anche noialtri, è che il Governo abbia occultato la vera gravità della situazione. In realtà, neppure io capisco molto quando cominciano a parlare di mili-sibel, oppure della quantità di radiazioni che si assorbono quando uno si sottopone ad un esame ai raggi X oppure ad una TAC. Resto però confuso e preoccupato per le conseguenze. D’altro canto,  penso che se venisse lanciato un allarme generale, si scatenerebbe  il caos totale di venti o più milioni di persone, così che il numero delle vittime risulterebbe più alto di quello già finora registrato. Non ci resta che sperare. Abbiamo soprattutto bisogno anche di fiducia e speranza. Lo dico da straniero, ma con il cuore giapponese. Sono in momenti come questi che servono i missionari! Ecco perché non ho mai pensato di tornarmene in Italia. Vivo l’esperienza come se questa fosse casa mia. E gente mia”.

DAI GIAPPONESI POSSIAMO IMPARARE MOLTO

Il saveriano don Danilo Marchetto, 55 anni, nativo di Grantortino nel padovano, ma diventato adottivo di Montegaldella (Vi), vive da ormai più quindici anni nel sud del Giappone, nella parrocchia di Kyusho di 300 fedeli cristiani. L’avevamo incontrato l’anno scorso raccontando la sua storia missionaria che lo vuole come “il parroco con la campana più grande del mondo” conservata nelle vicinanze della sua chiesa cattolica.

“Posso raccontare poco di ciò che è successo mille chilometri più in su del luogo dove io mi trovo. Qui a Kyusho, non abbiamo neppure sentito la grande scossa, e la devastazione l’ho vista alla televisione come voi . Qui siamo abituati alle forze della natura (tifoni, maremoti, terremoti) ma nessuno osava immaginare questa capacità distruttiva. Posso dire che i giapponesi si aspettano ora qualcosa di ancora peggiore. Ovvero, il terremoto su Tokyo annunciato dal 2000 come “la grande scossa”. Certo, questo è stato più disastroso ancora del terremoto di Kobe del ’95 che ricordo bene e che ha devastato i luoghi dove ho vissuto per cinque anni. Capire i giapponesi non è cosa facile e scontata per un occidentale.

Qui la paura e  un’emozione che viene vissuta in una forma totalmente differente. Noi siamo educati a viverla e a manifestarla. Qui è il contrario: è un fatto di cultura, che viene da uno spirito antico di sopravvivenza e da una grande capacità di organizzazione. Questo è il Giappone, che può insegnarci ancora molto. L’ordine qui regna sovrano e vi confesso che confrontando le situazioni posso dire che ho la stesso timore, uguale a quello che avrei se dovessi girare per una città caotica italiana. E poi, non è che in Occidente -penso al bacino del Mediterraneo-,  si stia più tranquilli in fatto di terremoti.  I giapponesi non vanno capiti: vanno aiutati. Ancora (2011ndr.) non è il tempo delle accuse o delle parole. Per un giapponese il silenzio può essere un conforto, ma più ancora un insegnamento. Ecco perché nelle mie prediche il riferimento alla tragedia resta morigerato,  sottotono, per entrare in punta di piedi nella coscienza certamente ferita di questa gente.  Le immagini che arrivano dal Nord del Giappone sono ancora troppo vive e forti anche per gente austera come i giapponesi. Serve a loro tempo per capire e tornare a sperare. Serve a noi tempo per aiutarli, con la certezza che rimanere qui sia il modo migliore per restituire speranza a questa straordinario popolo bello nella sua diversità”.

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