IL PIÙ GIOVANE SCARPARO D’ITALIA


IL GIOVANE RAGIONIERE DIVENTATO “SCARPARO”
È tra i più giovani artigiani di bottega d Italia, che doveva fare il ragioniere, ma preferisce aggiustare scarpe.

“Scarparo”, voce dialettale veneta per indicare il mestiere del calzolaio o ciabattino. Questo dicono i vocabolari, per identificare un mestiere tra i più umili e utili del passato.

Non esiste quasi più nessuno capace di “farci le scarpe”. Pochi coloro che sanno ancora risuolare, mettere un tacco o cucire una tomaia. Così ci tocca buttare via le scarpe perché nessuno le sa più ripararle, alla faccia del riciclo cosciente che eviterebbe l’eccesso di consumi e sprechi.

Così con la scomparsa di un mestiere, s’interrompe un ciclo virtuoso. Ma non è detta l’ultima parola, almeno fino a quando ci sarà anche un solo ragazzo, disposto a diventare calzolaio, pur avendo studiato altro. Come Alessandro Franzina, 19 anni di Montegalda, un piccolo paese del vicentino, che pur essendosi diplomato in ragioneria, ha preferito seguire l’istinto famigliare, che dopo il bisnonno, nonno e padre, lo sta facendo diventare l’erede di chi ti aggiusta le scarpe.

Oggi è tra i più giovani calzolai del Veneto e tra i pochi in Italia, che lo vede ancora un “apprendista” nella bottega di famiglia a pochi metri dalla famosa Basilica Palladiana nel cuore di Vicenza. Qui, da più di trent’anni è ubicato il negozio del papà Michele, che si fregia di aver fatto con suo padre recentemente scomparso, “le scarpe a mezza Vicenza”.

Non è difficile crederci, considerando che il nonno Franco, poi il papà Michele e oggi la zia Monica, c’è spazio per Alessandro, a rilanciare la tradizione di famiglia.

“Tutto nasce con il bisnonno Rino – ci racconta il giovane “scarparo”-, che aprì la prima bottega in provincia, dove trovò impiego poi mio nonno Franco e successivamente papà Michele, che spostandosi nel cuore cittadino, dagli anni ’60 hanno ancora la loro bottega. Dentro poco è cambiato dai tempi antichi. I materiali sono quasi gli stessi e gli odori seguono poco la moda delle scarpe che serpeggia nella storia.

Una “botteghetta” in veneto, dove si lavora alacremente e il lavoro non manca. Ogni giorno Alessandro parte con la sua famiglia dalla piccola Montegalda, dov’è nato e vive, per indossare in città, la “traversa de cuoio”, il grembiule di cuoio che è la sua “divisa” ufficiale di prossimo calzolaio. Dentro la bottega tutto è in movimento: ci sono tacchi, suole, borse, cinture, tomaie, forme da risistemare, dove il principio di fondo resta quello di recuperare quelle scarpe che invece andrebbero buttate. Motore dell’usa e getta: «Una tendenza moderna di questi anni –tiene a precisare papà Michele-, considerando come fino a pochi anni fa, le scarpe passavano di piede in piede, sempre con i dovuti aggiustamenti». Oggi tutto appare diverso, anche se vedendo la frenesia con cui si opera nella bottega, sono ancora molti coloro che scelgono la strada del “rammendo”, preferendo farsi aggiustare le scarpe, che in città significa modelli che valgono anche migliaia di euro.

Alessandro sa che deve ancora imparare molto, e sorride alla domanda su cosa prova nel sapere di essere il più giovane calzolaio del Veneto? Per ora sa benissimo di “essere un apprendista che deve fare ancora tanta esperienza”. Eppure, diventare “scarpari” oggi non sembra affatto scontato e non rappresenta di certo un mestiere che i giovani vorrebbero fare. “Più sicuro fare il ragioniere o aggiustare scarpe?” gli chiedo. Per Alessandro però, è questione di cuore: «E’ ciò che ha sempre fatto mio padre, mio nonno e ancor prima bisnonno. Perché non debbo farlo io!? Non è stato difficile ultimata la ragioneria, scegliere ciò che dovevo fare, che non è affatto quello per cui ho studiato. Il mestiere lo conoscevo già visto che durante le vacanze estive venivo ad aiutare mio padre in bottega, con l’occhio che carpiva quei movimenti, la tecnica e i segreti (pochi per la verità!), necessari per aggiustare un paio di scarpe». E’ così che ti sei “innamorato” del mestiere? «Se guardo i miei coetanei e compagni –aggiunge il giovane Alessandro-, mi sento un fuori dal coro o aspettative comuni. Ma se guardo alla mia famiglia, mi sento dentro la tradizione che porta il peso e l’orgoglio di tre generazioni. Confesso poi che questo mi stimola molto più che stare davanti a un computer per una vita dentro una banca!».

Con una variabile che è segno dei tempi che cambiano anche per i calzolai: a fianco di due uomini, a fare squadra da qualche anno, troviamo la zia Monica che dopo la morte del capostipite Franco, scelse di lasciare il mondo orafo, per aiutare il fratello Michele in bottega. «Di lavoro ce né in quantità –spiega la zia Monica, indicando gli scaffali-, al punto che non ci basta lavorare dal lunedì al venerdì, per dieci o dodici ore di fila. Il nostro è un mestiere in continua evoluzione per via del mutare dei tempi, mode e materiali sempre più moderni. Combattiamo però contro la tecnologia che vorrebbe dettare i tempi anche ai calzolai. Oggi i nostri clienti travolti dai social, si scordano che questo rimane un mestiere artigianale che richiede dedizione, manualità e tempi antichi». Dedizione che il padre sta tramandando al giovane figlio quasi per osmosi: «Ma in assoluta autonomia!» come ribadisce il maestro di bottega.

Zia Monica che lo ascolta da un angolo della bottega, aggiunge: «Il ragazzo ci sa fare, e qui di lavoro ce né tanto, se si ha voglia di lavorare!». Dalla bottega escono fino a 25-30 scarpe il giorno, che una volta riparate, possono tornare a camminare per strada. Sei mani che in bottega si muovono autonomamente, con Alessandro che per ora sistema cinghiette, fodere e tomaie, mentre il padre fa la parte grossa delle suole, tacchi e rialzi ortopedici.

Monica è tutta dedita al settore femminile di borse e scarpe di lusso. Scarpe dalle firme più blasonate e costosissime, affiancate a quelle più semplici e comuni: «In questo non facciamo differenza. Usiamo la medesima attenzione indistintamente per ogni genere di scarpa. L’importante, resta sempre lavorare bene!» conclude Alessandro, ricordandoci come in ogni scarpa, vi sia un pezzo di storia e vita di chi le indossa, che lui è chiamato –come è stato da sempre- ad aggiustare.

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I GUARDINI DI PIETRA DEL PROSECCO

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I “GUARDIANI” DI PIETRA DEL PROSECCO

E‘ un anziano  “frizzante” di Valdobbiadene, che invece di produrre vino, si dedica alla creazione di un mondo fantastico di pietra.

Se le colline della Marca Trevigiana stanno al vino “prosecco” e “cartizze”, i cumuli di ciottoli e sassi di fiume lavorati da “Zoe”, alias Angelo Favero, 76 anni portati con brio, ci mostrano un altro modo di essere frizzanti e di qualità. Realtà che convivono in simbiosi nel borgo di San Pietro di Barbozza, frazione di Valdobbiadene (Tv), dove le case hanno vigneti al posto dei giardini, guardati a vista da quei “putinòt” creati con i sassi del Piave da quel “Zoe”, il cui sopranome non è veneto e neppure greco come si vorrebbe, ma ispirato a uno dei personaggi del fumetto statunitense “Arturo e Zoe”, pubblicato come striscia negli anni ’50 nelle pagine del giornale l’Intrepido. E’ proprio grazie a quest’uomo, mite e fantasioso, dallo spirito fanciullesco e contagioso, che l’equazione arte-territorio trova la giusta compensazione ambientale. Qui il paesaggio è quello dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità (Unesco) pochi mesi fa, dove però c’è anche un altro “bene territoriale” come valore aggiunto, quello artistico che Zoe garantisce “essere più longevo dei vigneti stessi”. «I sassi durano più del vino e degli uomini!» sottolinea lui, senza timore di smentita. Quei strani sassi antropomorfi e zoomorfi, allineati come soldati,  spuntano all’improvviso lungo il ciglio stradale, tali da assomigliare ai più famosi “Moai” dell’Isola di Pasqua, qui in versione veneta. Zoe però non porta il peso della responsabilità culturale di una civiltà ormai perduta. Non vanta un’atavica tradizione cui ispirarsi, come pure una specifica formazione artistica. Il suo è puro istinto creativo, tanto da indicare il suo come “l’Atelier de l’art brut”, che da pensionato sfoga in assoluta libertà, senza alcun progetto, ideologia o vanità, anche se in fondo è un bene per l’intera comunità. La sua è un’incontenibile passione che cela un legittimo desiderio: «Trascorrere gli anni della mia vecchiaia, costruendo quel mondo che mi fu caro fin da bambino, quando giocavo con i sassi, credendo che questi fossero la cosa più preziosa che avevo» racconta lui con una narrazione da artista d’altri tempi. «Roba de mat» come dicono da queste parti coloro che hanno visto Zoe acquistare un vigneto (che oggi frutterebbe migliaia di Euro), per impiantarvi un capanno circondato da motte di sassi. Nella vulcanica testa di Zoe però, era già tutto chiaro: la veduta sulla valle. Il capanno come laboratorio. La distanza dal paese per starsene in libertà. Il passaggio della gente che ammira stupita le sue opere, e una buona dose di semplicità che lo rende socievole, accogliente e dolce come uomo e artista. «Artista, ha detto? So soeo un vecioto co ea pasion pae robe strane!» sottolinea, mostrando la lontananza dagli ideali che qui sono radicati più ancora delle vigne: quelli dei brand, del business enologico, del turismo e pianificazione aziendale. Zoe lo scrive sulla pietra all’entrata del suo spazio “en plein air”, sgombro da ogni recinzione come invece si vorrebbe un atelier d’arte agreste: «Cittadini dell’universo», a sottolineare la valenza di quello spazio e chi lo anima. La prima impressione è quella di sentirsi osservati da una selva di occhi pietrificati. Tutte opere realizzate con pochi e spartani mezzi d’incisione che tracciano linee morbide, incise con un flessibile sul duro sasso, cui aggiunge delle pupille di pietra nera, ricavate da scaglie di pietra alla maniera degli scalpellini di un tempo. Sguardi di pietra che ti osservano, mentre quelli buoni e sereni dell’artista restano vispi e curiosi come quelli di un bambino ormai cresciuto. Da un comune ciottolo di fiume, può nascere un Pinocchio, degli gnomi e folletti. Figure grottesche o silvane. Animali comuni o immaginari. «E’ la magia dei sassi –spiega lui-, dove basta saper “leggere” la loro forma naturale». Suscita tenerezza vederlo accarezzare i ciottoli, girandoli e rigirandoli, alla ricerca della forma perfetta che la sua fervida immaginazione poi plasma. Un esercizio che contagia adulti e bambini, quando giungano fin quassù per incontrarlo: «Questo sasso potrebbe essere un pesce. Una rana come un vecchio stanco…». Pochi sono quelli che immaginano che questa “visione della realtà”, era stata descritta già dagli antichi greci con il termine di “pareidolia”, l’attitudine di riconoscere forme antropomorfe nelle cose naturali, come nuvole, alberi o rocce. Un discorso questo troppo filosofico per il pragmatismo dello scultore in pieno campo: «Qua semmai, i pensa che so mat!» è la sua risposta che non prevede replica. «Ero bambino quando ho iniziato a dare vita ai sassi! Ho fatto il muratore per una vita, lavorando per molti anni come migrante nei grandi cantieri del mondo: Indonesia, Libia, ecc. prima di fare ritorno a Valdobbiadene, dove sto vivendo la mia pensione e passione!». «Decisi così di comprare un pezzo di terra senza voler fare quello che fanno tutti: produrre vino! Il mio era un richiamo diverso alla terra. Sentivo di dovermi dedicare completamente all’arte dei sassi del Piave, quello stesso fiume che si colorò di rosso per il sangue dei soldati durante la Prima Guerra Mondiale. Sassi “sacri” come sono le acque di questo fiume caro alla Patria. Trasformandoli in “putinot” però, Zoe ridà loro un’altra aurea di sacralità, quella artistica, che sarà pure un’arte della semplicità, ma è pur sempre qualcosa che fa bene allo spirito di chi li ammira. Dove il territorio il cui nome è conosciuto in tutto il mondo, oggi ha i suoi guardiani di pietra che ne custodisce l’integrità e creatività, il cui padre putativo è quello Zoe-Angelo “frizzante” ancor più del vino stesso.

IL NOSTRO CAMPANILE IN GIARDINO

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“ABBIAMO UN  CAMPANILE IN GIARDINO!”

Sono tre, giovanissimi, amano suonare le campane e per questo hanno un campanile “privato” nel loro giardino. 

Suonati sono suonati, ma solo perché hanno in comune una sfrenata passione per uno strumento musicale che sta in alto e viene suonato con delle corde a mano. L’avrete già capito che stiamo parlando di campane. Loro sono tre giovani promettenti campanari che coltivano una passione così viscerale verso i campanili, che i loro stessi genitori, confessano che “fin da piccoli, Davide, Achille e Lorenzo, invece di giocare con macchinine e costruzioni, si dilettavano con campanelle restando incantati di fronte ad ogni campanile”. «Eravamo un po’ preoccupati –confessano oggi con il sorriso i rispettivi genitori-, ma poi col passare degli anni la cosa ci pare pure peggiorata. Al punto che, non gli bastavano più le campanelle che avevano in casa, oggi si sono fatti aiutare per costruire un piccolo campanile a portata di mano, nel giardino di casa!». Davide di anni oggi ne ha 12 come Achille, mentre Lorenzo 15. Il primo è vicentino, l’altro padovano e il più grande veneziano. Ognuno ha in giardino il suo campanile, non certo grande con quello di Montegaldella (Vi) 58 metri d’altezza con tredici campane, dove i ragazzi si recano a imparare a suonare le campane a corda, secondo il metodo “veronese”, ben diverso da quello “ambrosiano o bolognese”.

«Il nostro minicampanile –spiegano i giovani campanari- ci serve per allenarci!». Una sorta di palestra per campanari: “Da noi  –sottolineano i loro  genitori-, c’è poco spazio per cellulari o playstation, visto che i nostri figli ci chiedono di andare in giardino a “giocare” con il loro campanile. Ma lasciamo fare visto che la loro è una passione non comune, ma del tutto sana!”. Così viscerale che, ascoltare le motivazioni offerte da questi ragazzi si dimostra spiazzante, abituati come siamo ad accusare i giovani di essere senza passioni e poco rispettosi delle tradizioni. Se per i nostri nonni era questione sacra e di tradizione millenaria, tanto che il toponimo della Regione Campania deriva proprio da “campana”, oggi le campane fanno più rumore per le polemiche di chi dice che “fanno troppo rumore”, che per la loro armonia. Ci si dimentica invece della loro cultura. Di quello che hanno rappresentato, come dimostrano alcuni speciali alcuni musei tematici sparsi in Italia.

Pochi ma tutti ben forniti di tante storiche campane. Una cultura quella del “tirare le corde”, che oggi vanta più campane che campanari che sanno suonarle. Sì, perché i campanari sono come il Panda: in via d’estinzioni, prontamente sostituiti dai motori elettrici nei campanili. Che sia la fine di un’epoca dove l’arte campanaria passava di padre in figlio, appare ormai evidente. Può far quindi strabuzzare gli occhi udire oggi un ragazzino come Lorenzo, rivolge ogni domenica al papà, chiedendogli: «Mi porti a suonare le campane!». “Miracolo!” esclamerebbe qualcuno, conoscendo i capricci di molti ragazzi. Ancor di più se quel ragazzino chiede di fabbricargli un campanile in miniatura da porre in giardino. «Mi piace, e basta!» sentenzia Davide il più giovane e spavaldo dei tre allievi campanari, che ha iniziato all’età di otto anni la scuola campanari. Oggi che di anni ne ha dodici, Davide seguita a suonare con abnegazione e caparbietà, la sua dedizione verso le campane.

Achille invece, nutre un legame ancor più personale con le campane, visto come durante la grave malattia che l’ha colpito quando aveva otto anni, il suo desiderio espresso da malato, era quello di entrare in un campanile e poter suonare una campana. Sogno che Achille poté esaudire, ospite nel campanile della cattedrale di Verona, dove quattro anni fa, gli è stato concesso di suonare la grande campana dei Canonici, grazie all’Associazione “Sogni” di Giavera del Montello (Treviso), che contribuisce al benessere psicologico dei pazienti, con la quale era entrato in contatto quando era ricoverato nel reparto di oncoematologia pediatrica dell’Ospedale di Padova per un tumore dal quale è guarito. Mamma Giusy, passato il grande spavento, oggi racconta con il sorriso questa esperienza: «Fu un autentico regalo per Achille, ancora convalescente trovarsi al centro di tredici campanari. Non gli bastò però diventare campanaro per un giorno, e chiese subito di trovargli una scuola dove poter coltivare quella passione che già a quattro anni, lo vedeva letteralmente estasiato dinnanzi a un campanile, chiedendoci di portarlo qua e la a vedere campanili nei vari paesi».

Durante i lunghi mesi di degenza poi, Achille fece scuola di campane in corsia: «Era diventata un’abitudine di medici e infermieri, parlare con lui di campane –racconta la mamma-, tanto che ancor oggi lo ricordano come il “supercampanaro” con poteri speciali», pensando come questa sua passione sia servita al percorso di guarigione. Ecco perché poi il passaggio alla scuola campanaria diretta dal maestro Lucio Barbieri, gli è parsa scontata oltre che naturale:«Tornato a casa –racconta Achille-, mi sono messo a cercare un campanile dove suonassero ancora a mano. Non fu facile, perché non ne sono rimasti molti in giro. Seppi che a Montegaldella sopravviveva una squadra di campanari con tredici campane, e chiesi subito di potervi entrare». Da allora, Achille non perde una lezione, ma soprattutto è oggi membro effettivo della squadra di 15 campanari che tengono alto l’orgoglio della tradizione. Di recente il ragazzo ha pure aperto un suo canale Youtube “campanaro 09 italia”, dove pubblica video, notizie e storia di tutti campanili d’Italia. C’è poi chi per lo stesso “amore”, ogni domenica si alza all’alba per farsi accompagnare dal papà, dal veneziano fino al vicentino, per sessanta chilometri, da Sandon di Fossò (Ve) dove abita, fino a Montegaldella per andare a suonare le campane.

«Io vivo sotto un campanile –racconta il quindicenne Lorenzo-, così che le campane le ho dentro fin da bambino, quando erano la mia ninnananna». Galeotta fu per lui la visita al Museo delle campane di Montegalda, dove incontrò il maestro di corda, il vicentino Livio Zambotto, mentre suonava il carillon: «Vengo da una famiglia di ex-sportivi –dice Lorenzo-, con il valore del gruppo e della squadra. Fin da piccolo giocavo con delle campanelle, e visto che nel veneziano non esistono più squadre campanarie, qui venni a sapere che a Montegaldella c’erano dei campanari dove potevo imparare il sistema veronese del suonare le campane. Dieci giorni dopo ero già alla prima lezione in campanile. Oggi dopo alcuni anni mi sento ormai un campanaro. Sbaglio ancora, certo, e per questo mi alleno come farebbe un atleta. Ma non in una palestra, bensì nel piccolo campanile dotato di cerchioni, castello, corde di canapa e acciaio, contrappesi e ovviamente le campanelle sonanti che mi sono costruito a casa con l’aiuto di papà». C’è chi se l’è costruito di legno e chi in ferro, riciclando come ha fatto Lorenzo, gli angolari di un vecchio scaffale industriale, per la struttura portante.

«Insieme a papà Stefano che lavora nei cantieri delle grandi navi, abbiamo utilizzato i vecchi meccanismi avvolgibili delle finestre per simulare i movimenti delle corde e campane. Dei tre campanili da giardino, quello che ha il numero minore di campanelle, è quello di Achille: solo quattro. Davide ne ha otto di vispe sorelle. Mentre quello più tecnico in ferro di Lorenzo, ne ha nove e tutte in scala. E’ qui che i ragazzi suonano quasi ogni giorno, con uno scampanellio udito anche dal vicinato: “Sopportano tutti bene” assicurano i giovani campanari in erba, certi che “sia meglio ascoltare il tintinnio di una campana, che lo stridio dei rumori moderni!”.