I GUARDINI DI PIETRA DEL PROSECCO

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I “GUARDIANI” DI PIETRA DEL PROSECCO

E‘ un anziano  “frizzante” di Valdobbiadene, che invece di produrre vino, si dedica alla creazione di un mondo fantastico di pietra.

Se le colline della Marca Trevigiana stanno al vino “prosecco” e “cartizze”, i cumuli di ciottoli e sassi di fiume lavorati da “Zoe”, alias Angelo Favero, 76 anni portati con brio, ci mostrano un altro modo di essere frizzanti e di qualità. Realtà che convivono in simbiosi nel borgo di San Pietro di Barbozza, frazione di Valdobbiadene (Tv), dove le case hanno vigneti al posto dei giardini, guardati a vista da quei “putinòt” creati con i sassi del Piave da quel “Zoe”, il cui sopranome non è veneto e neppure greco come si vorrebbe, ma ispirato a uno dei personaggi del fumetto statunitense “Arturo e Zoe”, pubblicato come striscia negli anni ’50 nelle pagine del giornale l’Intrepido. E’ proprio grazie a quest’uomo, mite e fantasioso, dallo spirito fanciullesco e contagioso, che l’equazione arte-territorio trova la giusta compensazione ambientale. Qui il paesaggio è quello dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità (Unesco) pochi mesi fa, dove però c’è anche un altro “bene territoriale” come valore aggiunto, quello artistico che Zoe garantisce “essere più longevo dei vigneti stessi”. «I sassi durano più del vino e degli uomini!» sottolinea lui, senza timore di smentita. Quei strani sassi antropomorfi e zoomorfi, allineati come soldati,  spuntano all’improvviso lungo il ciglio stradale, tali da assomigliare ai più famosi “Moai” dell’Isola di Pasqua, qui in versione veneta. Zoe però non porta il peso della responsabilità culturale di una civiltà ormai perduta. Non vanta un’atavica tradizione cui ispirarsi, come pure una specifica formazione artistica. Il suo è puro istinto creativo, tanto da indicare il suo come “l’Atelier de l’art brut”, che da pensionato sfoga in assoluta libertà, senza alcun progetto, ideologia o vanità, anche se in fondo è un bene per l’intera comunità. La sua è un’incontenibile passione che cela un legittimo desiderio: «Trascorrere gli anni della mia vecchiaia, costruendo quel mondo che mi fu caro fin da bambino, quando giocavo con i sassi, credendo che questi fossero la cosa più preziosa che avevo» racconta lui con una narrazione da artista d’altri tempi. «Roba de mat» come dicono da queste parti coloro che hanno visto Zoe acquistare un vigneto (che oggi frutterebbe migliaia di Euro), per impiantarvi un capanno circondato da motte di sassi. Nella vulcanica testa di Zoe però, era già tutto chiaro: la veduta sulla valle. Il capanno come laboratorio. La distanza dal paese per starsene in libertà. Il passaggio della gente che ammira stupita le sue opere, e una buona dose di semplicità che lo rende socievole, accogliente e dolce come uomo e artista. «Artista, ha detto? So soeo un vecioto co ea pasion pae robe strane!» sottolinea, mostrando la lontananza dagli ideali che qui sono radicati più ancora delle vigne: quelli dei brand, del business enologico, del turismo e pianificazione aziendale. Zoe lo scrive sulla pietra all’entrata del suo spazio “en plein air”, sgombro da ogni recinzione come invece si vorrebbe un atelier d’arte agreste: «Cittadini dell’universo», a sottolineare la valenza di quello spazio e chi lo anima. La prima impressione è quella di sentirsi osservati da una selva di occhi pietrificati. Tutte opere realizzate con pochi e spartani mezzi d’incisione che tracciano linee morbide, incise con un flessibile sul duro sasso, cui aggiunge delle pupille di pietra nera, ricavate da scaglie di pietra alla maniera degli scalpellini di un tempo. Sguardi di pietra che ti osservano, mentre quelli buoni e sereni dell’artista restano vispi e curiosi come quelli di un bambino ormai cresciuto. Da un comune ciottolo di fiume, può nascere un Pinocchio, degli gnomi e folletti. Figure grottesche o silvane. Animali comuni o immaginari. «E’ la magia dei sassi –spiega lui-, dove basta saper “leggere” la loro forma naturale». Suscita tenerezza vederlo accarezzare i ciottoli, girandoli e rigirandoli, alla ricerca della forma perfetta che la sua fervida immaginazione poi plasma. Un esercizio che contagia adulti e bambini, quando giungano fin quassù per incontrarlo: «Questo sasso potrebbe essere un pesce. Una rana come un vecchio stanco…». Pochi sono quelli che immaginano che questa “visione della realtà”, era stata descritta già dagli antichi greci con il termine di “pareidolia”, l’attitudine di riconoscere forme antropomorfe nelle cose naturali, come nuvole, alberi o rocce. Un discorso questo troppo filosofico per il pragmatismo dello scultore in pieno campo: «Qua semmai, i pensa che so mat!» è la sua risposta che non prevede replica. «Ero bambino quando ho iniziato a dare vita ai sassi! Ho fatto il muratore per una vita, lavorando per molti anni come migrante nei grandi cantieri del mondo: Indonesia, Libia, ecc. prima di fare ritorno a Valdobbiadene, dove sto vivendo la mia pensione e passione!». «Decisi così di comprare un pezzo di terra senza voler fare quello che fanno tutti: produrre vino! Il mio era un richiamo diverso alla terra. Sentivo di dovermi dedicare completamente all’arte dei sassi del Piave, quello stesso fiume che si colorò di rosso per il sangue dei soldati durante la Prima Guerra Mondiale. Sassi “sacri” come sono le acque di questo fiume caro alla Patria. Trasformandoli in “putinot” però, Zoe ridà loro un’altra aurea di sacralità, quella artistica, che sarà pure un’arte della semplicità, ma è pur sempre qualcosa che fa bene allo spirito di chi li ammira. Dove il territorio il cui nome è conosciuto in tutto il mondo, oggi ha i suoi guardiani di pietra che ne custodisce l’integrità e creatività, il cui padre putativo è quello Zoe-Angelo “frizzante” ancor più del vino stesso.

IL NOSTRO CAMPANILE IN GIARDINO

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“ABBIAMO UN  CAMPANILE IN GIARDINO!”

Sono tre, giovanissimi, amano suonare le campane e per questo hanno un campanile “privato” nel loro giardino. 

Suonati sono suonati, ma solo perché hanno in comune una sfrenata passione per uno strumento musicale che sta in alto e viene suonato con delle corde a mano. L’avrete già capito che stiamo parlando di campane. Loro sono tre giovani promettenti campanari che coltivano una passione così viscerale verso i campanili, che i loro stessi genitori, confessano che “fin da piccoli, Davide, Achille e Lorenzo, invece di giocare con macchinine e costruzioni, si dilettavano con campanelle restando incantati di fronte ad ogni campanile”. «Eravamo un po’ preoccupati –confessano oggi con il sorriso i rispettivi genitori-, ma poi col passare degli anni la cosa ci pare pure peggiorata. Al punto che, non gli bastavano più le campanelle che avevano in casa, oggi si sono fatti aiutare per costruire un piccolo campanile a portata di mano, nel giardino di casa!». Davide di anni oggi ne ha 12 come Achille, mentre Lorenzo 15. Il primo è vicentino, l’altro padovano e il più grande veneziano. Ognuno ha in giardino il suo campanile, non certo grande con quello di Montegaldella (Vi) 58 metri d’altezza con tredici campane, dove i ragazzi si recano a imparare a suonare le campane a corda, secondo il metodo “veronese”, ben diverso da quello “ambrosiano o bolognese”.

«Il nostro minicampanile –spiegano i giovani campanari- ci serve per allenarci!». Una sorta di palestra per campanari: “Da noi  –sottolineano i loro  genitori-, c’è poco spazio per cellulari o playstation, visto che i nostri figli ci chiedono di andare in giardino a “giocare” con il loro campanile. Ma lasciamo fare visto che la loro è una passione non comune, ma del tutto sana!”. Così viscerale che, ascoltare le motivazioni offerte da questi ragazzi si dimostra spiazzante, abituati come siamo ad accusare i giovani di essere senza passioni e poco rispettosi delle tradizioni. Se per i nostri nonni era questione sacra e di tradizione millenaria, tanto che il toponimo della Regione Campania deriva proprio da “campana”, oggi le campane fanno più rumore per le polemiche di chi dice che “fanno troppo rumore”, che per la loro armonia. Ci si dimentica invece della loro cultura. Di quello che hanno rappresentato, come dimostrano alcuni speciali alcuni musei tematici sparsi in Italia.

Pochi ma tutti ben forniti di tante storiche campane. Una cultura quella del “tirare le corde”, che oggi vanta più campane che campanari che sanno suonarle. Sì, perché i campanari sono come il Panda: in via d’estinzioni, prontamente sostituiti dai motori elettrici nei campanili. Che sia la fine di un’epoca dove l’arte campanaria passava di padre in figlio, appare ormai evidente. Può far quindi strabuzzare gli occhi udire oggi un ragazzino come Lorenzo, rivolge ogni domenica al papà, chiedendogli: «Mi porti a suonare le campane!». “Miracolo!” esclamerebbe qualcuno, conoscendo i capricci di molti ragazzi. Ancor di più se quel ragazzino chiede di fabbricargli un campanile in miniatura da porre in giardino. «Mi piace, e basta!» sentenzia Davide il più giovane e spavaldo dei tre allievi campanari, che ha iniziato all’età di otto anni la scuola campanari. Oggi che di anni ne ha dodici, Davide seguita a suonare con abnegazione e caparbietà, la sua dedizione verso le campane.

Achille invece, nutre un legame ancor più personale con le campane, visto come durante la grave malattia che l’ha colpito quando aveva otto anni, il suo desiderio espresso da malato, era quello di entrare in un campanile e poter suonare una campana. Sogno che Achille poté esaudire, ospite nel campanile della cattedrale di Verona, dove quattro anni fa, gli è stato concesso di suonare la grande campana dei Canonici, grazie all’Associazione “Sogni” di Giavera del Montello (Treviso), che contribuisce al benessere psicologico dei pazienti, con la quale era entrato in contatto quando era ricoverato nel reparto di oncoematologia pediatrica dell’Ospedale di Padova per un tumore dal quale è guarito. Mamma Giusy, passato il grande spavento, oggi racconta con il sorriso questa esperienza: «Fu un autentico regalo per Achille, ancora convalescente trovarsi al centro di tredici campanari. Non gli bastò però diventare campanaro per un giorno, e chiese subito di trovargli una scuola dove poter coltivare quella passione che già a quattro anni, lo vedeva letteralmente estasiato dinnanzi a un campanile, chiedendoci di portarlo qua e la a vedere campanili nei vari paesi».

Durante i lunghi mesi di degenza poi, Achille fece scuola di campane in corsia: «Era diventata un’abitudine di medici e infermieri, parlare con lui di campane –racconta la mamma-, tanto che ancor oggi lo ricordano come il “supercampanaro” con poteri speciali», pensando come questa sua passione sia servita al percorso di guarigione. Ecco perché poi il passaggio alla scuola campanaria diretta dal maestro Lucio Barbieri, gli è parsa scontata oltre che naturale:«Tornato a casa –racconta Achille-, mi sono messo a cercare un campanile dove suonassero ancora a mano. Non fu facile, perché non ne sono rimasti molti in giro. Seppi che a Montegaldella sopravviveva una squadra di campanari con tredici campane, e chiesi subito di potervi entrare». Da allora, Achille non perde una lezione, ma soprattutto è oggi membro effettivo della squadra di 15 campanari che tengono alto l’orgoglio della tradizione. Di recente il ragazzo ha pure aperto un suo canale Youtube “campanaro 09 italia”, dove pubblica video, notizie e storia di tutti campanili d’Italia. C’è poi chi per lo stesso “amore”, ogni domenica si alza all’alba per farsi accompagnare dal papà, dal veneziano fino al vicentino, per sessanta chilometri, da Sandon di Fossò (Ve) dove abita, fino a Montegaldella per andare a suonare le campane.

«Io vivo sotto un campanile –racconta il quindicenne Lorenzo-, così che le campane le ho dentro fin da bambino, quando erano la mia ninnananna». Galeotta fu per lui la visita al Museo delle campane di Montegalda, dove incontrò il maestro di corda, il vicentino Livio Zambotto, mentre suonava il carillon: «Vengo da una famiglia di ex-sportivi –dice Lorenzo-, con il valore del gruppo e della squadra. Fin da piccolo giocavo con delle campanelle, e visto che nel veneziano non esistono più squadre campanarie, qui venni a sapere che a Montegaldella c’erano dei campanari dove potevo imparare il sistema veronese del suonare le campane. Dieci giorni dopo ero già alla prima lezione in campanile. Oggi dopo alcuni anni mi sento ormai un campanaro. Sbaglio ancora, certo, e per questo mi alleno come farebbe un atleta. Ma non in una palestra, bensì nel piccolo campanile dotato di cerchioni, castello, corde di canapa e acciaio, contrappesi e ovviamente le campanelle sonanti che mi sono costruito a casa con l’aiuto di papà». C’è chi se l’è costruito di legno e chi in ferro, riciclando come ha fatto Lorenzo, gli angolari di un vecchio scaffale industriale, per la struttura portante.

«Insieme a papà Stefano che lavora nei cantieri delle grandi navi, abbiamo utilizzato i vecchi meccanismi avvolgibili delle finestre per simulare i movimenti delle corde e campane. Dei tre campanili da giardino, quello che ha il numero minore di campanelle, è quello di Achille: solo quattro. Davide ne ha otto di vispe sorelle. Mentre quello più tecnico in ferro di Lorenzo, ne ha nove e tutte in scala. E’ qui che i ragazzi suonano quasi ogni giorno, con uno scampanellio udito anche dal vicinato: “Sopportano tutti bene” assicurano i giovani campanari in erba, certi che “sia meglio ascoltare il tintinnio di una campana, che lo stridio dei rumori moderni!”.

MADRE E FIGLIA, CALZOLAIE PER VOLONTA’

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     MADRE E FIGLIA: CALZOLAIE PER VOLONTA’

Madre e figlia, sposano un antico mestiere “maschile”, rivoluzionando i ruoli e la tradizione

Farle stare sulle dita di una mano, è già troppo. Primo, perché è un mestiere in via di estinzione. Poi perché storicamente è sempre stato un ruolo maschile, quello dello “scarparo” di paese. Così dire oggi che ci sono delle “calzolaie”, lascia spazio più alla fantasia che alla realtà, se non fosse per l’audacia e temerarietà di un paio di figure femminili, ormai non più giovani, che nel vicentino perpetuano la tradizione del riparare le scarpe, offrendo di fatto uno sbocco a una professione che sembra ormai dimenticata. Una si trova a Vicenza. L’altra a Rosà nel bassanese e la terza è Maria Pia Cischele, 62 anni portati con freschezza, nata a Vicenza, che da 15 anni vive con la famiglia a Caldogno (Vi). Qui, tutti la conoscono come “Pia la calzolaia”, anche se di primo acchito parrebbe una normale signora di città. A tradirla le mani leggermente usurate dal mestiere che ha scelto di fare in tarda età: riparare scarpe. La domanda sorge quindi spontanea: cosa spinge una donna anche solo a pensare di cimentarsi in un mestiere che ha ormai perso i suoi maestri? «Semplice, fare di necessità virtù, – risponde la calzolaia, mostrando una frase che ha stampigliato sul muro-, “Le mani operose di mio padre, valgono oggi la mia eredità!”».

Con due date: 1933 e 2013, nel mezzo del quale c’è la vita di Pia, che per trent’anni è stata un’impiegata d’ufficio, per poi trovarsi a 53 anni senza un impego. «Si può comprendere cosa si prova a diventare disoccupata a quell’età –aggiunge lei-, con lo smarrimento prima e la forsennata ricerca poi di un impiego che nessuno ti offre!|? In quei momenti, frughi anche tra i cassetti della tua memoria…». Ed è qui che Pia ritrova i ricordi della passata infanzia, quando giocava con le scarpe accatastate sul banco di lavoro di papà Anselmo, che nel 1933 aveva ereditato l’arte del calzolaio dallo zio. «Negli anni del Dopoguerra, in famiglia c’eravamo sei bocche da sfamare –ricorda Pia-, così mio padre per arrotondare, nel dopolavoro riparava scarpe in soffitta. E’ lì che guardando e giocando con pelli e suole, in realtà stavo imparando. Non potevo sapere allora, quello che poi mi sarei trovata a fare da grande». L’intuizione di mettersi anche lei a riparare scarpe, visto che nessuno lo fa più, fu presto smorzata dalle risposte di famigliari e amici: «Sei matta -la incalzavano-  a metterti a fare un mestiere del genere. E poi chi ti può insegnare visto che non ci sono più calzolai?».

«Era tutto vero –aggiunge lei-, parliamo di un mestiere dove più che imparare da altri, devi sbagliare e riprovare per imparare dai tuoi errori. Ma c’era qualcosa in me che mi diceva di non mollare. Così iniziai a bussare alle porte degli ultimi calzolai rimasti: tutti uomini ovvio! Immaginatevi la faccia di questi nel sapere che una donna chiedeva di diventare calzolaia». Solo un giovane calzolaio di Vicenza, Alessio Fiorillo, la presa sul serio, vedendone un futuro. «Tanto seriamente–spiega Pia-, che decise di seguirmi, muovendo i miei primi passi nel mestiere. E’ seguita poi la “scuola degli errori” e con l’aiuto di alcuni tutorial trovati in Internet, ho così iniziato a camminare con le mie scarpe!». Sei mesi dopo, la temeraria Pia decide di fare il grande passo: «Aprire bottega a Caldogno, in uno storico locale dal nome a dir poco speciale “Porton delle meraviglie”, dinnanzi al Municipio, dove ancora mi trovo». Questo per dire che lei “fa le scarpe” a tutti gli amministratori locali? «No, semmai gliele riparo!» risponde con l’acutezza dell’artigiana rodata. Preferisce quindi essere chiamata ciabattina o calzolaia? «Si fa spesso confusione: i ciabattini riparano le scarpe, i calzolai le fanno!».«Quello delle scarpe è un mondo che spesso ignoriamo, dove solo la moda oggi detta legge.

E’sparito il senso della comodità del piede, sopraffatti da marchi e stili di tendenza. Oggi la scarpa non è più quel filtro con la terra che calziamo. Quel toccare del corpo con il mondo che ci circonda, che è molto più importante di un abito, visto che la scarpa ti porta. E per dirla tutta, il mio è un mestiere usurante, anche se non pare. Devi fare tante ore se vuoi fare guadagni e le mani poi ti fanno male presto, dato che devi lavorare di forza tra tomaie, suole e tacchi di ogni forma e altezza come la moda vuole. Questo non è un mestiere che ti fa ricca, ma ti permette di vivere e darti soddisfazioni, cose che non sempre hai stando in un ufficio». E’ un riscatto tutto femminile il suo che col passare del tempo, contagia anche la figlia Arianna di 37 anni che sembra aver assorbito la passione della madre. Anche lei, complice la crisi nel 2019, perde il lavoro. Come ragioniera non vede un futuro davanti a sé. Così come la madre, decide di guardasi attorno e dentro di sé: «Fino ad allora –racconta la ragazza-, andavo di tanto in tanto nella bottega di mamma per darle un aiuto. Una cosa saltuaria che non mi aveva mai indotto a pensare che un domani sarei stata io l’erede di quel mestiere».

«Due anni fa, mia madre ravvisò l’idea di andare in pensione, dicendo che stava cercando qualche apprendista cui lasciare l’attività, ormai avviata. Qualche ragazzo si era anche presentato, ma nessuno è poi rimasto, dicendogli “che è un mestiere che richiede troppo tempo!”». «Così ebbi l’intuizione -continua la figlia-, di farmi avanti io, dicendo  a mia madre: “Se non trovi nessuno, resto io in bottega!”». Fu un fulmine a ciel sereno: «Pensaci bene –le sottolineò mamma Pia-, , ma sono felice che tu lo faccia!”». «Ho imparato il mestiere guardando mia mamma –spiega oggi Arianna, mentre rifila una suola di cuoio, tra un tacco e l’altro-, e questo è sicuramente un grande vantaggio e un onore che mi porterò per tutta la vita». Sente già il peso dell’eredità tradizionale, umana e affettiva la bella ragazza che da ragioniera si è trasformata in “calzolaia”: «Non è comunque un mestiere facile. Occorre pazienza, creatività e forza, anche se non lo si immagina, ma dove non arriva quest’ultima, arriva l’ingegno e il fatto di essere donne, ci aiuta!». Giovane, bella e volenterosa: non si è mai pentita di aver fatto una scelta tanto desueta? «Pentita no, assolutamente! Però fatico a consigliarlo ad altri o altre, solo per i cavilli burocratiche.

Sappiamo bene cosa significa per un giovane artigiano aprire oggi una partita Iva! Se poi ci mettiamo dentro anche la pandemia, dopo sei mesi dall’apertura della mia partita Iva, con il lockdown, posso dire che il mio primo anno è stato da paura». «Gli stessi ragazzi sgranano gli occhi quando gli dico il mestiere che faccio. Qualcuno mi chiede spiegazioni, perché loro sono figli di quella cultura moderna, dove le scarpe si buttano e non si riparano». Un mestiere che avrà un futuro o no? Qui tentenna nella risposta Arianna: «Non lo so, ma credo che ci aspettino tempi difficili». Più rassicurante invece è la madre Pia: «Io credo invece, che di calzolai il mondo avrà sempre bisogno. Se poi non ci fossero loro, restiamo noi “calzolaie”, poche ma determinate!» senza possibilità di smentita.