KOSOVO- L ALTRO VOLTO DELL’ INDIPENDENZA

di Antonio Gregolin                                         -diritti riservati su testo e foto –

AZZARDO KOSOVO(2008)

Tra volontà d’indipendenza e rancori nazionalistici. Viaggio nella storia di uno Stato nascente e dentro uno Stato che ne rivendica il dominio

Il piccolo Kosovo (o Kosova  in albanese) indipendente e pedina di strategie politiche internazionali. Tra i giochi di potere è  la quotidianità della sua gente comune a segnare i primi timidi passi verso una legittimazione ancora  tutta da scrivere per la neonata nazione balcanica.

Il Kosovo dunque, più che una ritrovata libertà, cerca di stabilire limiti e nuovi confini: quelli delle enclave serbe che sono una spina sul fianco per gli ex-combattenti nazionalisti dell’UCK, oggi  al potere (il cui vicepresidente è stato assolto dall’accusa di genocidio dal Tribunale per i Diritti Umani dell’AJA, nell’aprile scorso).  Luci e ombre si addensano ancora su tutti i Balcani che rischiano ancora  di frammentarsi.

violenta manifestazione serba a Mitroviza maggio 2008

Ultimo esempio è  la minoranza serbo-kosovara di Mitrovica, città a norest di Pristina pronta a chiedere un’indipendenza nell’indipendenza, per ritornare nel seno della madre patria serba. Stessa volontà è espressa dai serbi della Repubblica Srpska della Federazione di Bosnia. Diversamente, i croati del nord della Bosnia rivendicano il diritto di ricongiungersi alla Croazia. C’è poi il Montenegro e Macedonia che nello scacchiere internazionale stanno muovendo le loro pedine, cercando di evitare una guerra intestina. Dal piccolo Kosovo, ma un grande esempio da seguire, dunque?

E’ ciò che pensano le diverse etnie con il rischio di frammentare l’area che qui se non fosse per il Contingente Internazionale SFOR (in Bosnia) e KFOR (in Kosovo) sarebbe già passata alle armi. Tutti però pensano che la situazione apparentemente tranquilla, in realtà sia una pentola a pressione. Lo dichiarano apertamente i kosovari albanesi: “Se non avessimo la KFOR saremmo nuovamente in guerra coi serbi…”. Lo ripetono i serbi richiusi come “polli” nei recinti che delimitano i loro villaggi presidiati dai militari internazionali: “Hanno fatto il deserto attorno a noi. Rivendichiamo la storia e la terra che ci appartiene da secoli…”.

entrata enclave serba

A stimolare gli animi interviene anche la chiesa ortodossa serba che non risparmia incitazioni  e “crociate” per “riconquistare ciò che ci hanno rubato”. Il paradosso storico però è scritto sulla carta: la Risoluzione ONU 1244 del 1999 sanciva il Kosovo come provincia serba. L’autonomia  albanese dello scorso 17 febbraio, ha ribaltato le sorti, con il benestare della Comunità Internazionale che resta “speranza e delusione” per le genti dell’ex-Jugoslavia.

DALL’ALTRA PARTE DELLA BARRICATA: VITA DA SERBI

Sono l’8% della attuale popolazione kosovara, i serbi che hanno deciso di restare in quello che è il nuovo Kosovo. Una minoranza che (da padroni fino al 1999), oggi si dichiara un “popolo senza futuro nella loro terra”. Impossibile smentire le loro teorie nazionalistiche, quando con date e fatti storici  questa gente ti dimostra che quella è da oltre tre secoli parte della Serbia. Eppure, l’altra storia, quella dopo il 17 febbraio 2008, li vede costretti a vivere nei piccoli villaggi o quartieri blindati delle città per paura di ripercussioni da parte degli albanesi.

presidio KFOR in una enclave serba

“Oggi è peggio della Seconda Guerra Mondiale – spiega un anziano serbo-, allora almeno parlavamo una lingua comune. Oggi nemmeno quella!”. Villaggi di campagna, sorvegliati come caserme, dove la disoccupazione sfiora l’80% e la sopravvivenza è data dalla modesta agricoltura o dai parenti all’estero. “I giovani da qui devono scappare –spiega una mamma serba-, non c’è  futuro…”.

maestra serba

Le scuole qui sono finanziate da Belgrado, ma la politica di lassù non lascia sperare niente di buono per la minoranza serba: “Non possiamo uscire a fare la spesa, parliamo una lingua diversa, ci hanno rubato la terra che coltivavamo e abbiamo una fede diversa…”, ci spieganoi vecchi dell’enclave di Gorasdevaz a sud di Pec.

Il “diverso” come sempre accade nel dopoguerra divide; anzi, traccia solchi che sembrano incolmabili, lasciando strascichi d’odio che sono tangibili. Le armi qua esistono eccome: “Lo facciamo per difenderci –risponde un giovane serbo che non ostento un berretto con l’effige nazionale serba-, se servisse abbiamo tutto ciò che serve!”. Forse, come accade spesso, quelle armi vengono nascoste dentro i cimiteri, in quelle tombe di chi in guerra è morto.

SPIRITI  BLINDATI

Ci dispiace, non parliamo con voi italiani…” ci dice  senza alcun preambolo un monaco ortodosso. L’intimazione a non parlare con chi ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo arriva nei monasteri, direttamente dal Patriarca di Belgrado. Il clima non è certo conciliante, anche perché qui i monaci quattro grandi monasteri del Kosovo, sono trattati e difesi come “indios in riserva”.

Austeri e determinati a resistere, la loro presenza qui è secolare.Una bellezza spirituale che spesso ha dovuto fare i conti con l’avanzata mussulmana del passato e la storia contemporanea divisa tra nazionalismo albanese e laica indifferenza. I loro monasteri come quello di Decani o il Patriarcato di Pec, sono guardati a vista notte e giorno dai militari italiani della KFOR. Se i monaci devono uscire, vengono scortati da militari armati. Se dunque nelle meravigliose chiese l’aria resta quella mistica delle icone, fuori divise militari e blindati, mostrano quanto sia difficile qui mettere la parola “fine” a un conflitto etnico piuttosto che religioso.

SCONTRO ETNICO O RELIGIOSO?

nonni e nipote serbiUna cosa appare certa in Kosovo: il conflitto è stato etnico (tra serbi e albanesi) piuttosto che religioso (tra ortodossi e mussulmani). Diversamente che in Bosnia o Croazia, il dopoguerra kosovaro è laico. Nelle maggiori città non si nota quella che è “l’islamizzazione forzata”. Niente moschee faraoniche. Neppure il velo delle donne è ostentato. Anzi, le moschee sono spesso vuote e la stragrande maggioranza di popolazione (oltre il 60% è composto da giovani sotto i 30 anni) si dichiara “mussulmano” ma non praticante.

volto di un anziano kosovaro albanese

L’unico segno tradizionale che rischia di essere anch’esso travolto dall’aria di libertà, è l’antico copricapo (il Plis) di lana bianca, segno di saggezza, indossato dagli anziani albanesi. Simbolicamente rappresenta le montagne innevate del Kosovo, ma anche la contrastante differenza tra chi è mussulmano-albanese e chi invece vestendo di nere resta serbo-ortodosso. Questione di stile e cultura he continuano a plasmare la storia di quella che non tutti ancora chiamano “Nazione”.

 

 

LA STRAGE IMPUNITA

L’ultima pulizia etnica dei Balcani

Da guerrigliero a custode della memoria. Una memoria che in tutti i Balcani è un copione identico a se stesso: medesimi nomi “genocidio o pulizia etnica”; medesime vittime civili inermi. Nei libri di storia a dieci anni di distanza, nomi come Zebrenica (Bosnia 1995) stentano ancora a trovare spazio; altri più recenti come Giacova (Kosovo 1999), forse sono storia troppo recente. “Per questo che è importante tenere viva la memoria”, risponde Haki Sadrija oggi un normale insegnante di liceo, che nel 1999 indossava l’uniforme dei combattenti dell’UCK nelle montagne kosovare.

Il suo sogno di un Kosovo libero oggi si è realizzato, ma il costo umano di tutto ciò è davanti ai suoi occhi: in quel campo colorato da migliaia di fiori artificiali, dove croci cristiane e steli mussulmane si confondono. Tutto intorno la campagna, poco oltre le montagne dell’Albania. La strada è rimasta la stessa del 1999, quando centinaia di civili vennero costretti con la forza dai serbi a percorrerla lasciando le proprie case prima che si compisse il più grande massacro di civili del Kosovo moderno. “Era il 27 aprile del ’99 –ricorda il professore-, quando i serbi paramilitari e militari rastrellarono gli abitanti dei villaggi di Meje e Korenic (a metà strada tra Pristina e Pec), costringendoli in poche ore ad abbandonare le loro case, incolonnandoli sull’unica strada diretta in Albania. Per evitare la fuga, molti tratti di questa strada vennero minati. Tutto  fu premeditato e progettato con assoluta precisione.

Il loro capo era un certo Nikola Micunovic, meglio conosciuto dai serbi come capitano Dragan”. “Era uno di noi –continua il professore- e abitava in quella fattoria là a pochi metri da questo cimitero. Fu lui a progettare il tutto. Lui conosceva le famiglie.Un tipo pacifico che rassicurava gli stessi cattolici dicendo che non gli sarebbe stato tolto un capello; eppure, oggi è ricercato come criminale di guerra per questo eccidio”. “Nessuno qui sospettava ciò che sarebbe successo: alle 9.00 del mattino la lunga colonna di civili venne fermata proprio qui davanti. I serbi separarono uomini e ragazzi, dalle donne e bambini. Le donne vennero fatte proseguire, mentre 400 persone dai 13 ai 90 anni, vennero ammassati e costretti a stare in ginocchio fino alle 19.00 della sera. Da quell’ora nessuno ha più saputo nulla di loro”.

Sono diventati “missing” dispersi.  I loro corpi sono stati trovati mesi dopo stipati dentro dei camion o in fosse comuni in Serbia. Le analisi patologiche definirono la loro come “morte naturale”: “Una tragedia così può mai essere naturale?” incalza Hari. “Alcuni vennero fucilati, altri non sappiamo ancor oggi  quale sia stata la loro fine. I loro corpi sono stati recuperati e qui sepolti. Li guardi, sono ragazzi, papà e nonni. Chi li ha uccisi e traditi, oggi resta impunito; nessuna accusa (sappiano chi sono) solo perché nessuno può testimoniare i fatti. Chi c’era è morto!”. Dei 400 civili trucidati, 29 restano ancora senza sepoltura negli obitori di Pristina, in attesa del loro riconoscimento ufficiale: “Anche questi saranno presto sepolti qua –assicura il “custode”-, in questo luogo diventato il nostro memoriale nazionale che abbiamo costruito con le nostre mani, senza monumenti o finanziamenti.

Lì nel campo a fianco, questi uomini vennero ammassati prima di farli scomparire nel nulla. Un nulla che per noi significa memoria!”. Oggi i loro famigliari hanno fondato una Associazione mista di cattolici e musulmani di cui Harj Sadrija è il presidente : “Non si è trattato di un massacro religioso –spiega lui-, il fatto che qui siano sepolti cristiani e musulmani insieme, rende questa tragedia unica in tutta l’ex-Jugoslavia. Ciò per cui noi oggi lottiamo è il diritto alla giustizia. Nessuna istituzione ci ha mai aiutato. Noi abbiamo le prove che potrebbero incastrare mandanti ed esecutori, ma nessuno ci ascolta!”.

“Un giorno potremmo anche perdonare, ora che sappiamo che la nostra indipendenza è stata ottenuta anche col sangue di questi innocenti. La Serbia in tal senso non ha mai formulato alcun pentimento e tanto meno offerto alcun tipo di collaborazione. Ci ha solo restituito i nostri morti. Il nostro sospetto –conclude- è che questo massacro sia stato architettato con l’aiuto delle autorità religiose della chiesa serbo-ortodossa. Questi morti non possono più urlare, oggi  lo facciamo noi per loro: Europa, aiutaci  a fare giustizia!”.

L’ALBUM DELLA MEMORIA

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