MADRE E FIGLIA, CALZOLAIE PER VOLONTA’

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     MADRE E FIGLIA: CALZOLAIE PER VOLONTA’

Madre e figlia, sposano un antico mestiere “maschile”, rivoluzionando i ruoli e la tradizione

Farle stare sulle dita di una mano, è già troppo. Primo, perché è un mestiere in via di estinzione. Poi perché storicamente è sempre stato un ruolo maschile, quello dello “scarparo” di paese. Così dire oggi che ci sono delle “calzolaie”, lascia spazio più alla fantasia che alla realtà, se non fosse per l’audacia e temerarietà di un paio di figure femminili, ormai non più giovani, che nel vicentino perpetuano la tradizione del riparare le scarpe, offrendo di fatto uno sbocco a una professione che sembra ormai dimenticata. Una si trova a Vicenza. L’altra a Rosà nel bassanese e la terza è Maria Pia Cischele, 62 anni portati con freschezza, nata a Vicenza, che da 15 anni vive con la famiglia a Caldogno (Vi). Qui, tutti la conoscono come “Pia la calzolaia”, anche se di primo acchito parrebbe una normale signora di città. A tradirla le mani leggermente usurate dal mestiere che ha scelto di fare in tarda età: riparare scarpe. La domanda sorge quindi spontanea: cosa spinge una donna anche solo a pensare di cimentarsi in un mestiere che ha ormai perso i suoi maestri? «Semplice, fare di necessità virtù, – risponde la calzolaia, mostrando una frase che ha stampigliato sul muro-, “Le mani operose di mio padre, valgono oggi la mia eredità!”».

Con due date: 1933 e 2013, nel mezzo del quale c’è la vita di Pia, che per trent’anni è stata un’impiegata d’ufficio, per poi trovarsi a 53 anni senza un impego. «Si può comprendere cosa si prova a diventare disoccupata a quell’età –aggiunge lei-, con lo smarrimento prima e la forsennata ricerca poi di un impiego che nessuno ti offre!|? In quei momenti, frughi anche tra i cassetti della tua memoria…». Ed è qui che Pia ritrova i ricordi della passata infanzia, quando giocava con le scarpe accatastate sul banco di lavoro di papà Anselmo, che nel 1933 aveva ereditato l’arte del calzolaio dallo zio. «Negli anni del Dopoguerra, in famiglia c’eravamo sei bocche da sfamare –ricorda Pia-, così mio padre per arrotondare, nel dopolavoro riparava scarpe in soffitta. E’ lì che guardando e giocando con pelli e suole, in realtà stavo imparando. Non potevo sapere allora, quello che poi mi sarei trovata a fare da grande». L’intuizione di mettersi anche lei a riparare scarpe, visto che nessuno lo fa più, fu presto smorzata dalle risposte di famigliari e amici: «Sei matta -la incalzavano-  a metterti a fare un mestiere del genere. E poi chi ti può insegnare visto che non ci sono più calzolai?».

«Era tutto vero –aggiunge lei-, parliamo di un mestiere dove più che imparare da altri, devi sbagliare e riprovare per imparare dai tuoi errori. Ma c’era qualcosa in me che mi diceva di non mollare. Così iniziai a bussare alle porte degli ultimi calzolai rimasti: tutti uomini ovvio! Immaginatevi la faccia di questi nel sapere che una donna chiedeva di diventare calzolaia». Solo un giovane calzolaio di Vicenza, Alessio Fiorillo, la presa sul serio, vedendone un futuro. «Tanto seriamente–spiega Pia-, che decise di seguirmi, muovendo i miei primi passi nel mestiere. E’ seguita poi la “scuola degli errori” e con l’aiuto di alcuni tutorial trovati in Internet, ho così iniziato a camminare con le mie scarpe!». Sei mesi dopo, la temeraria Pia decide di fare il grande passo: «Aprire bottega a Caldogno, in uno storico locale dal nome a dir poco speciale “Porton delle meraviglie”, dinnanzi al Municipio, dove ancora mi trovo». Questo per dire che lei “fa le scarpe” a tutti gli amministratori locali? «No, semmai gliele riparo!» risponde con l’acutezza dell’artigiana rodata. Preferisce quindi essere chiamata ciabattina o calzolaia? «Si fa spesso confusione: i ciabattini riparano le scarpe, i calzolai le fanno!».«Quello delle scarpe è un mondo che spesso ignoriamo, dove solo la moda oggi detta legge.

E’sparito il senso della comodità del piede, sopraffatti da marchi e stili di tendenza. Oggi la scarpa non è più quel filtro con la terra che calziamo. Quel toccare del corpo con il mondo che ci circonda, che è molto più importante di un abito, visto che la scarpa ti porta. E per dirla tutta, il mio è un mestiere usurante, anche se non pare. Devi fare tante ore se vuoi fare guadagni e le mani poi ti fanno male presto, dato che devi lavorare di forza tra tomaie, suole e tacchi di ogni forma e altezza come la moda vuole. Questo non è un mestiere che ti fa ricca, ma ti permette di vivere e darti soddisfazioni, cose che non sempre hai stando in un ufficio». E’ un riscatto tutto femminile il suo che col passare del tempo, contagia anche la figlia Arianna di 37 anni che sembra aver assorbito la passione della madre. Anche lei, complice la crisi nel 2019, perde il lavoro. Come ragioniera non vede un futuro davanti a sé. Così come la madre, decide di guardasi attorno e dentro di sé: «Fino ad allora –racconta la ragazza-, andavo di tanto in tanto nella bottega di mamma per darle un aiuto. Una cosa saltuaria che non mi aveva mai indotto a pensare che un domani sarei stata io l’erede di quel mestiere».

«Due anni fa, mia madre ravvisò l’idea di andare in pensione, dicendo che stava cercando qualche apprendista cui lasciare l’attività, ormai avviata. Qualche ragazzo si era anche presentato, ma nessuno è poi rimasto, dicendogli “che è un mestiere che richiede troppo tempo!”». «Così ebbi l’intuizione -continua la figlia-, di farmi avanti io, dicendo  a mia madre: “Se non trovi nessuno, resto io in bottega!”». Fu un fulmine a ciel sereno: «Pensaci bene –le sottolineò mamma Pia-, , ma sono felice che tu lo faccia!”». «Ho imparato il mestiere guardando mia mamma –spiega oggi Arianna, mentre rifila una suola di cuoio, tra un tacco e l’altro-, e questo è sicuramente un grande vantaggio e un onore che mi porterò per tutta la vita». Sente già il peso dell’eredità tradizionale, umana e affettiva la bella ragazza che da ragioniera si è trasformata in “calzolaia”: «Non è comunque un mestiere facile. Occorre pazienza, creatività e forza, anche se non lo si immagina, ma dove non arriva quest’ultima, arriva l’ingegno e il fatto di essere donne, ci aiuta!». Giovane, bella e volenterosa: non si è mai pentita di aver fatto una scelta tanto desueta? «Pentita no, assolutamente! Però fatico a consigliarlo ad altri o altre, solo per i cavilli burocratiche.

Sappiamo bene cosa significa per un giovane artigiano aprire oggi una partita Iva! Se poi ci mettiamo dentro anche la pandemia, dopo sei mesi dall’apertura della mia partita Iva, con il lockdown, posso dire che il mio primo anno è stato da paura». «Gli stessi ragazzi sgranano gli occhi quando gli dico il mestiere che faccio. Qualcuno mi chiede spiegazioni, perché loro sono figli di quella cultura moderna, dove le scarpe si buttano e non si riparano». Un mestiere che avrà un futuro o no? Qui tentenna nella risposta Arianna: «Non lo so, ma credo che ci aspettino tempi difficili». Più rassicurante invece è la madre Pia: «Io credo invece, che di calzolai il mondo avrà sempre bisogno. Se poi non ci fossero loro, restiamo noi “calzolaie”, poche ma determinate!» senza possibilità di smentita.  

LA DENTIERA E IL CAMPIONE

 

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LA DENTIERA, IL CAVALLO E IL CAMPIONE

Diventa campione, grazie al cavallo comprato con i soldi della dentiera della nonna 

La nonna investe i soldi destinati alla sua dentiera per comprare il cavallo al giovane nipote di Montegalda (Vi), Matteo Maggiolo, 13 anni, con il quale poi vincerà il titolo europeo di Barrel Rancing Junior. La soddisfazione in casa Maggiolo è alle stelle, le stesse rappresentate nella bandiera europea che coronano la targa premio che Matteo ha vinto nel novembre scorso, che oggi fa bella mostra sull’uscio di casa. Parliamo di un ragazzino finito in sella quasi per caso, ma in giovane età: aveva sei anni, quando è salito in groppa di un pony. A mettercelo fu proprio la nonna Anna, che sul giovanissimo fantino vigila come una buona stella, restando la sua maggiore fan.  «Avevamo provato di tutto –racconta la nonna-, ma nessuno sport sembrava interessare a mio nipote. Così un giorno, passando davanti a un maneggio, pensai come ultima soluzione di farlo salire su un cavallo. Un cavallino proporzionato alla sua altezza, e da lì è iniziata una storia che non avrei mai immaginato!». Storia che in poco più di un anno è già quella di un campione. Fortunato fu anche l’incontro con l’istruttore e campione di Barrel Rancing, Stefano Pregnolato, che intuì subito le potenzialità del ragazzino, tanto che qualche mese dopo si stava già allenando attorno ai fusti, in previsione delle gare future che poi l’avrebbero portato a conquistare il podio europeo.  «Non è mica facile abituarsi a certi titoli» risponde il ragazzino-campione con loquacità.

Targhe e fibbie delle già tante sue tante vittorie, sono tutte allineate come trofei, anche se l’orgoglio più tangibile é visibile nei volti di nonna Anna, papà Stefano e mamma Erica, cui non si sottrae neppure il fratellino Luca di 9 anni, che precisa subito: «Non voglio però diventare un campione come mio fratello!». “Passione” che papà Stefano che nella vita fa il metalmeccanico, precisa: «In famiglia ne basta uno che salga in sella, visti i costi!». «Matteo aveva mostrato fin dall’età di sei anni, grande empatia con i cavalli –aggiunge mamma Erica-, che si trattasse dei primi pony o grandi cavalli come Galant il primo o Sharper Lena Bess, con cui ha vinto il campionato europeo». Dopo le prime inevitabili sconfitte iniziali sul campo di gara, sono cominciate a piovere le prime vittorie. Il primo a gongolare è papà Stefano che a stento trattiene l’entusiasmo per il figlio, sostenendolo anche nei momenti difficili come quel giorno del 2020, quando durante una gara il suo cavallo Galant si è azzoppato in gara: «Sappiamo che fine fanno i cavalli zoppi?» precisa lui.

Matteo aveva il dolore di aver perso il suo cavallo, e la quasi certezza di aver finito una carriera appena iniziata: «Lo vidi piangere spesso –ricorda nonna Anna-, e sappiamo cosa significa vedere soffrire il proprio nipote. Così sapendo di aver messo da parte un gruzzoletto utile per la mia nuova dentiera, ne parlai con mio marito Enrico. L’idea era quella di acquistare noi un nuovo cavallo da regalare a Matteo, ma le finanze non ce lo permettevano». Nel frattempo la sorte di Galant, subiva un’ulteriore inaspettata svolta: il proprietario di Chioggia del cavallo che il ragazzo montava, impietositosi dall’attaccamento tra i due, decise di regalargli l’animale trasformandolo in un cavallo in pensione a lieto fine. Così oggi Galant nitrisce e galoppa libero in un ampio recinto in piena campagna costruito appositamente a pochi metri dalla casa dei Maggiolo, continuando però a  rifiutare chiunque tenti di salirgli in groppa, che non sia Matteo.

La carriera del giovane campione prosegue oggi  in sella alla nuova cavalla regalatagli dai nonni, Sharper Lena Bess dove si allena: «Per noi è stato un sacrificio da pensionati –racconta nonna Anna,commossa-, ma si è trattato della cosa più bella che potessimo fare!». I risultati che sono seguiti, confermano l’utilità di quel gesto, dimostrandosi un investimento affettivo e sportivo, che ha permesso di far diventare Matteo campione europeo, in poco più di un anno. Dalla sua piccola Montegalda all’Europa in sella a un cavallo, per il giovane fantino ha il valore anche dell’affetto e stima dei suoi compagni e professori che all’indomani della sua vittoria, l’hanno accolto in classe con un grande cartello con scritto:”Grande Matteo!”.

Ma qui sanno che del giovane fantino ne parleremo ancora in futuro, visto che lui ha altri sogni in sella a quel “caval donato”, regalatogli della lungimirante nonna Anna, “campionessa” di affettività.

 

LA FAMIGLIA CHE SPOLVERA LA STORIA

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LA FAMIGLIA CHE SPOLVERA LA STORIA

Quando la storia è  passione, dedizione e famigliarità

C’è chi passa alla storia per gesta eroiche. E chi più semplicemente, “salva” la storia con piccole azioni per coscienza civica. Azioni personali, che possono diventare famigliari, generazionali e nazionali. E’ il caso della famiglia Zen di San Giacomo di Romano d’Ezzelino (Vi), alle porte della Valsugana, che fanno del loro appuntamento con la storia, un momento di condivisione non appena il clima, la montagna e oggi la pandemia, lo consentono. Essere una famiglia che ripulisce la storia, per loro è un fatto del tutto naturale e istintivo. Nessuno glielo chiede, e non pretendono ricompensi o ringraziati: «Lo facciamo per soddisfazione e basta!» dice il capostipite. Così per papà Claudio 56 anni, escavatorista, con i suoi tre figli, Anna 22, Davide 18 ed Eva 12 la più piccola, ripulire i cippi commemorativi della Grande Guerra per non far cancellare la memoria di chi ha perso la vita tra le montagne del Monte Grappa, è un atto di coscienza. Una missione famigliare iniziata dieci anni fa: «A oggi siamo arrivati a una quarantina di cippi ripuliti –racconta soddisfatto papà Claudio-, e ne abbiamo altri in cantiere».

 Agli inizi, tutto era spontaneo e fortuito. Oggi invece si sono specializzati grazie all’esperienza sul campo, al punto da essere contattati dagli stessi comuni a mettere mano ai cippi dimenticati. «Il nostro è volontariato -precisa Claudio-, e il nostro tempo va alla memoria nazionale e individuale». Trovare un’intera famiglia con questo spirito però, non lascia indifferenti. E l’esempio dei Zen passando di bocca in bocca, si è trasformato in inaspettati riconoscimenti, civili e militari. Italiani come stranieri, incluso quello dell’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che li ringraziò per il servizio reso alla Patria. Ai tre ragazzi poi è arrivata l’onorificenza più prestigiosa: la spilla d’oro conferita nel 2015 della prestigiosa Croce Nera Austriaca. Ma papà Claudio insiste: «Non facciamo cose speciali. Puliamo quello che la storia e prima ancora gli uomini, tendono a cancellare».La contabile operativa della famiglia è la giovanissima Eva, che ricorda ancora quella prima volta che papà la portò davanti a un ceppo: «Avevo cinque anni, quando in compagnia dei miei due fratelli, andammo a ripulire una lastra di pietra su cui non si leggevano più le scritte. Alla sera, il cippo sembrava risplendere!». Memoria e rispetto per la storia, che papà Claudio ha respirato fin dalla tenera età, quando nella sua famiglia di contadini, il nonno Francesco e Giuseppe tornati vivi dalla Prima Guerra Mondiale, gli raccontavano l’esperienza vissuta al fronte. Così il piccolo Claudio è cresciuto a pane, latte e storia. 

Ma vi è una data e un nome preciso alla base della sua folgorante volontà: «Fu durante l’Adunata Nazionale degli alpini di Bassano nel 2008, dove partecipavo con la mia divisa storica da ardito del 1918, interamente confezionata con le mie mani, che ebbi l’incontro che mi segnò la vita. Fu con Cristiano Dal Pozzo di Rotzo (mancato nel 2016 a 102 anni), alpino del deserto che aveva vissuto nel’43 la Guerra d’Africa. Il vecchio alpino gli disse un giorno che “fin da giovane andava a ripulire i cippi militari sull’Altopiano, perché gli pareva di ridare vita ai caduti”. Per Claudio fu un’illuminazione: «Quella frase del vecchio alpino mi risuona tutt’ora dentro, al punto da custodirla come una consegna storica». C’è qualcosa d’intimo nelle parole che descrivono il suo modo di fare. Lo si intuisce ancor di più, non appena lo si vede all’opera, mentre ripulisce una lapide, con una delicatezza che va oltre il restauro: «L’ho insegnato anche ai i miei figli, che non stiamo ripulendo solo una pietra, ma un pezzo di storia». «Non vi è piacere più appagante, mentre fatichi nel ripulire una lapide, di provare questo!». 

«Il riconoscimento più bello –conclude Claudio- , resta sempre quello che ci giunge dalla gente comune che, prima si avvicina incuriosita, e poi mi riempiono di domande, finendo col dirci “grazie per quello che facciamo!». Convinti come sono, che la storia si possa fare anche con piccoli gesti. Intrisi però  di significato, come il loro operato.