LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE

Di Antonio Gregolin                                           -testo e foto riservati-

“IN ITALIA ERO MORTA.L’AFRICA MI  HA SALVATA!”

La commovente storia  di un’imprenditrice del Nordest veneto arrivata ad un passo dal suicidio dopo  il fallimento della sua ditta,  che scopre la sua “resurrezione”  in Africa, dove  è tornata ad essere  “nuovamente una persona e una imprenditrice” con un futuro tutto da scrivere.

L’Africa mi ha accolta. L’Africa mi ha salvata!”. Lo dice senza dubbi e oggi con un sorriso sereno Katia Mazzuccato, 43 anni padovana di Monselice, ripercorrendo la sua storia recente da ex imprenditrice di successo, ma indotta al fallimento, che poi  ha scoperto nel Continente africano la sua nuova “culla”. “Una rinascita prima ancora come donna e poi come imprenditrice” aggiunge la Mazzuccato. Il cielo per lei ora è azzurro, e molta di questa sua ritrovata serenità lo deve allo spirito dell’Africa, tra Benin, Togo e Gana dove è conosciuta come la “Yovò” la bianca. E’ passata così dal Nordest d’Italia al Nordest africano: da una condizione di “appestata” per colpa della burocrazia italiana, alla “ritrovata identità” in quella porzione di stati dove l’economia nascente rispecchia quella atmosfera da “miracolo economico” che si respirava nella sua terra natia fino agli anni ’90. Ma il bagaglio d’esperienze dell’imprenditrice padovana, porta ancora il peso della vicenda professionale che l’ha travolta anche come donna spingendola  fino al suicidio.  Non a caso oggi lei si definisce “una donna col pelo”. Una “sopravvissuta” visto che nel 2001 la sua ditta è fallita, dopo essere stata prima accusata con l’osservanza di sospensione dell’attività, e poi assolta. “Questo mi ha portata al tentativo di suicidio”.

“Sono una scampata alla ferocia del disonore, passando dalle stelle alle stalle, dopo un improvviso battage mediatico orchestrato ad arte, cui hanno fatto seguito una serie di provvedimenti amministrativi, con il quale si sosteneva che con i nostri materiali di recupero (pneumatici) producevamo diossina”. La questione perse credibilità solo dopo tre anni dall’avvio delle indagini, ma intanto la società di venti operai fu costretta a chiudere i battenti,  dopo il sequestro dei beni dei soci, impossibilitati anche economicamente a pagarsi  qualsiasi ricorso. L’inferno burocratico della Mazzuccato, la cui esperienza è simile in questo momento a quella di molti imprenditori conterranei, è una cicatrice che è indelebile:  “Se in  Italia un tribunale ti dichiara fallito –racconta l’imprenditrice che divenne leader nel settore del riciclaggio dei pneumatici , nonché presidente di categoria-, ricevi sulla tua persona e onorabilità un marchio indelebile che ti spinge fin sul baratro”.

“LA NOSTRA GIUSTIZIA PUO’ UCCIDERTI”

Da un’accusa ritenuta poi infondata, inizia la “discesa agli inferi” di Katia, tanto che per la donna manager abituata agli affari internazionali con il ruolo di presidente di categoria, quel suo mondo gli si è sbriciolato improvvisamente tra le mani. “Se non vivi questa esperienza, non puoi comprenderla fino in fondo.Non puoi capire cosa significhi passare improvvisamente da libera cittadina a presunta delinquente, sapendo di essere innocente, perdendo tutto quello che hai costruito con fatica in una vita. Pazienza, se improvvisamente il mondo non ti vede più come eri prima. Ciò che non accetti, è il disonore che provi guardando tuo figlio, marito e madre che restano in silenzio. Un silenzio che ti uccide dentro. E’ per questo che un imprenditore arriva vicino al suicidio. Spesso –seguita l’imprenditrice- è un omicidio di Stato e lo dico pensando alle decine d’imprenditori veneti che si sono uccisi negli ultimi mesi dopo essere falliti. Li capisco perché c’ero arrivata vicina. Ringrazio solo mio ex-marito Enrico che, dopo la sentenza del tribunale del 2001 decise preventivamente di eliminare dal nascondiglio dei sonniferi che mi ero comprata. Quella notte di primavera del 2002 ricordo che cercai per tutta la casa le pasticche perché avevo deciso di farla finita. Frugai ovunque, ma non li trovai. L’indomani mattina –racconta Katia con un filo di commozione- fu come svegliarmi da un incubo, chiedendomi cosa stessi facendo”. La sua ditta era ormai fallita. Due anni di fermo, una montagna di debiti accumulati e la certezza di avere 18 euro in tasca che era tutto quanto il Tribunale gli aveva lasciato. “Quando accadono questi fatti –racconta lei- le banche sono le prime ad affondarti. Tutti scappano, diventi un appestato sociale. Ti viene cancellata ogni genere d’identità. Perfino la posta non mi arriva più, perché Katia ancora oggi non esiste…”.  Tre anni dopo le accuse che polverizzarono la brillante carriera della manager padovana, la chiusura delle indagini ha dimostrarono che si è trattato di “atti amministrativi infondati”: “Peccato che fosse ormai troppo tardi. Lo tzunami giudiziario all’italiana aveva esaurito la sua forza distruttiva”.

UNA  “VU’ CUMPRA” AL CONTRARIO

Poi per Katia, arriva l’Africa. “E’ stato osservando i miei operai africani che spedivano elettrodomestici usati in Africa, che compresi quale fosse il mio nuovo obiettivo. Capii che sarei dovuta diventare io stessa una vù cumprà al contrario, partendo cioè per l’Africa. Nel 2002 la magnanimità di un giudice che mi concesse la possibilità d’espatrio verso il West Africa, mi ha fatta giungere in Togo, Gana e Benin. L’area africana che è l’equivalente del nostro Nordest veneto”. Lì Katia apre alcuni punti vendita dove frigoriferi, televisori ed elettrodomestici di ogni genere, tutti dimessi e provenienti dall’Italia, con  l’ingegno degli africani li rendevano un bene di consumo non più da buttare, ma  riutilizzare.

LA BIANCA “YOVO’

La “Yovò” la bianca come la chiamano oggi in Togo dove risiede stabilmente, ha scoperto una nuova vita: “Qui non mi sento più solo una Partita Iva, e neppure solo un Codice Fiscale”. Qualche amico italiano ha così raccolto fin da subito la sfida di Katia, sostenendola nella nuova impresa. La sua rinascita parte così dalle periferia delle grandi capitali africane, dove vive oggi in una modesta casa: “Questo dimostra che non ho trovato l’oro e nemmeno lo sto cercando. Non sono dunque diventata ricca –aggiunge-, ma l’aver ritrovato la mia dignità e il senso della speranza è già una grande ricchezza”.

Nuovi progetti e nuove sfide arrivano poi con la grande crisi globale.“Dal 2006 al 2009 mi sono occupata attivamente dello studio del territorio in Togo e Benin, elaborando un piano d’intervento che tenga conto dell’aspetto economico, sociale e politico, con la valorizzazione integrata di ampie superfici agricole in un Paese in via di sviluppo”.

IL SUO DRAMMA DIVENTA UN LIBRO

Chi ti condanna spesso non legge neppure gli incartamenti dell’inchiesta. Se hai fortuna ti salvi, altrimenti un giudice può buttarti via”. La travagliata vicenda imprenditoriale e umana di Katia è un dedalo burocratico in cui ci si perde facilmente. Ma è lei a ripescare il bandolo: “Non può essere diversamente, visto che sei tu a salvare te stessa! Sei sola e ti lasciano in solitudine.Ti senti come un cane randagio che deve fidarti ciecamente del suo fiuto. Sai che la tua vita è nelle mani di altri. Prima ti colpiscono e ti annientano. Poi semmai, ti assolvono.  Se sono resistita a tutto questo, è perchè ho oltrepassato la vergogna stessa. Ho capito che è più vergognoso piegarsi quando non si ha commesso alcuna colpa, piuttosto che reagire per trovare il proprio bene e quello dei propri famigliari”. Lo ripete forte di quel suo coraggio che lei, grintosa com’è, ha raccontato con passione e molte lacrime nel libro autobiografico “Mal d’Africa” (Ediz. Giraldi). “E’ qui che ho raccontato quella parte della mia vita che nemmeno i miei famigliari conoscevano. Leggendo quelle pagine hanno saputo che avevo deciso di farla finita. Oggi mio figlio di venticinque anni è tornato a guardarmi e sorridermi con il giusto orgoglio di un figlio verso la madre”. Ma il mondo di Katia è radicalmente mutato: “Sono cambiata, in meglio. Oggi i soldi non sono più il fine, ma un mezzo…”. “Dopo lo shock delle inchieste e poi del fallimento ho iniziato a guardarmi nuovamente attorno. Sono ripartita da quel mio “tesoretto” di 18 euro che ero riuscita a salvare dalla mia posizione fallimentare ”.

“IL MIO FUTURO E’ TUTTO AFRICANO”

La parola chiave è energia a Jatropha Curcas pianta per la produzione di olio bio-combustibile. Sarà una piantagione eco-sostenibile che rientra nel piano delle biomasse previste dal protocollo di Kyoto sul clima. Per questo in questi giorni è tornata nuovamente in Italia dove, tra un’intervista e l’altra, sta prendendo nuovi contatti con gli imprenditori veneti per convincerli che la sua trasferta africana è “una realtà che guarda ad un futuro  che sarà anche nostro”.


Carica di contagioso entusiasmo ci saluta così la “Yovò” cioè la “donna bianca” italiana: “Semmai ho sbagliato, l’ho fatto meno di chi in Italia mi ha giudicata colpevole e poi assolta. E’ a loro che dico di essere andata via con la valigia di cartone, ma voglio tornare con l’aereo privato…e solo in vacanza!”. Provocazione? Forse no, Katia la “Yovò bianca” è audace. Già pensa all’India e Cina: “Per questi ci sto già lavorando…”.

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