TONI CAPUOZZO: SULLA LINEA DELLA STORIA

Di Antonio Gregolin                                            Diritti riservati di testo e foto

TONI CAPUOZZO: INVIATO SULLA LINEA DELLA STORIA.

Toni Capuozzo, 60 anni, volto noto della televisione, è uno di quei giornalisti che puoi trovarti fianco a fianco, in autobus come al bar. Per lui c’è poca redazione, ma tanta esperienza di strada.

Il mestiere dell’inviato ce l’ha nel sangue e forse anche il suo aspetto un po’ trasandato, lo aiuta a non farsi notare nelle situazioni difficili del mondo. E’ uno di quelli che t’impressionano per la sua “normalità”, piuttosto che per il vanto di essere uno degli “inviati di guerra” più apprezzati d’Italia. Trent’anni di carriera dentro gli eventi che Toni Capuozzo ama seguire per strada. Quelle strade in cui si vede spesso durante le sue telecronache tastando a tu per tu coi fatti, le persone, i drammi, m anche le speranze. Capuozzo a modo suo è una “macchina del tempo” che ti assorbe non appena snocciola i suoi ricordi: “In fondo –dice lui- sei un inviato per tutta la vita. Lo sei a casa come sul fronte di guerra. In vacanza come in redazione. Chi nasce come me con questo istinto, non fa distinzione tra ciò che è lavoro o vita privata. In fondo, noi raccontiamo la vita sotto ogni suo aspetto…”. Per questo è uno che non concede indulgente verso la spettacolarizzazione della notizia: “Racconto alla vecchia maniera –spiega Capuozzo-, come facevano e fanno ancora (in pochi Ndr) i cronisti della vecchia scuola. Ormai però sono vecchio e questo mio fare può sembrare un po’ obsoleto considerando ciò che comunemente passa in video oggi”. Spesso però questo genere di personalità  raccontano bene ciò che li circonda, mentre sono restii a raccontarsi, e quando lo fanno come in questo caso, hanno un certo imbarazzo: “E’ deformazione professionale” risponde lui introducendo la nostra chiacchierata in un bar di Asiago. “Ho iniziato trenta anni fa come cronista, spedito direttamente in Sudamerica senza alcun tipo d’esperienza. Mandato praticamente in strada. E via a lavorare… Videro che me la cavavo, così mi mandarono in Medio e Estremo Oriente e per finire  in ultima sono approdato  ai fatti di casa nostra”.

“Una carriera la mia, fatta al contrario di quanto normalmente avviene nel mondo del giornalismo”.“A uno come me serve fortuna, tanta fortuna per i luoghi in cui vado –aggiunge Capuozzo-, e  per questo mi considero un uomo fortunato nello stare ancora qui a dialogare con lei.”. Sorride, e per un momento i suoi occhi si distraggono guardando il pacifico paesaggio montano: “Diciamo che un reporter che fa cronaca in presa diretta in prima linea, è inevitabile essere capaci d’indossare una “corazza” che ti isola dai stessi fatti. E’ quello che fanno i chirurghi in ospedale coi loro pazienti, anche se poi in realtà, sappiamo che ciò che vediamo e filtriamo, alla lunga ti cambiano dentro”. In questo, la figura del reporter dagli albori a oggi non è cambiata: “Sai di essere nel momento in cui la storia fa la storia e questa inevitabilmente segna la tua  storia personale e professionale! Ecco perché non c’è luogo o situazione più diversa dalla guerra, dove le cose vengono restituite alla propria dimensione concreta, essenziale, semplice, in cui il tutto può diventare attimo e ogni attimo ti può apparire come una conquista: hic et nunc!”. La filosofia applicata del reporter di lunga carriera che così si racconta.

Cosa significa e come giustifica  un reporter, la guerra?

“Oggi usiamo molto male questo sostantivo. La parola “guerra” ci porta a dividere le cose in bianco o nero. In realtà, c’è tutta una classificazione degli eventi che è diventata ancora più intricata con gli ultimi conflitti, dove la realtà ha molte interpretazioni come la “Verità” stessa. ”

Lo stesso allora vale per  la parola pace?

“Certamente! Guerra e pace non sono più nettamente distinguibili come un tempo. Oggi si presentano confuse, difficili da comprendere nel profondo, soprattutto per coloro che considerano la questione con termini assolutistici. Non il bianco o nero, ma sono i grigi a prevalere nella storia moderna. Mi spiego, credo poco alle parole con le iniziali maiuscole. Credo che le preghiere e i pii proponimenti come le manifestazioni pacifiste (quelle rare e profondamente pacifiche, beninteso), servano ben poco alla causa della vera pace. Nessuna irriverenza verso chi è impegnato in questi campi; ma l’esperienza m’insegna che il vero crisma della pace si ottiene con degli accordi e dei processi sociali e politici, tanto faticosi che hanno una loro logica dilatata nel tempo-spazio. Nessuno vieta dunque ad un bambino di disegnare la pace su un disegno; ma la realtà mostra come invece la stessa pacificazione, passi attraverso situazioni e figure di personaggi che magari fino ieri hanno imbracciato un fucile. L’esempio dei palestinesi e israeliani lo dimostra da decenni! Sharon, il falco, ha osato fare quello che neppure un premio nobel per la pace come Rabin ha fatto prima. La stessa Costituzione irachena non può che essere una lunga e faticosa gestazione, così come lo è stata per noi nell’immediato dopoguerra. Insomma, la storia e tanto meno la pace, non è mai lineare come la si vorrebbe, e questo lo capisci solo con l’esperienza di campo!”

Ma la guerra resta guerra!

Le guerre di oggi hanno ben poco di ufficiale. E’ vero che esiste una  componente d’odio ancestrale che non cancelleremo mai del tutto, ma l’odio più pericoloso che attraversa la nostra società è quello tra simili.

Si spieghi…

E’ quell’odio che si respira nelle nostre piazze o più ancora nei pianerottoli dei condomini o tra vicini di casa. Quello della porta accanto. Ecco questo è il pericolo trasversale della nostra realtà a spaventarmi di più, perché è strisciante e non si fa annunciare.”

C’è però anche l’odio per il diverso?

Che ci sia uno scontro tra civiltà è davanti gli occhi di tutti, e questo s’innesta in una specie di relativismo culturale globale, dove per sua natura la religione o le religioni dovrebbero essere serbatoi di tolleranza e civiltà.

Cito il cristianesimo che insegna la fratellanza, ma non posso non citare quell’Islam che non reprime l’odio. L’Islam infatti  fatica ad uscire da questo baratro, anche se di fatto tutti i terroristi sono islamici, ma non tutti gli islamici sono terroristi. Questo per dirla in una maniera molto schietta, chiamando le cose con il loro nome come invece non sempre accade nel mondo del giornalismo.”

Qual è il giornalismo che allora vorrebbe?

Il mio sogno è fare una trasmissione con lunghi reportage anche di un’ora, con molte immagini e poche parole. Sessanta minuti e più di televisione pura. Non so  se però me la faranno mai fare. Ne dubito!

Quali sono le sue paure?

Sono tante e  le porto sempre con me. Sono dentro la mia valigia, solo che non le faccio vedere e le nascondo sotto i miei baffi. Capita di pensare a chi potresti lasciare, alla moglie ai figli… Il vero reporter è colui che resta uomo nell’animo e giornalista nella mente.  Non è sempre facile, ma ci provo! Anzi, ci proviamo…”.


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