ZAZA’ ” PRINCIPE DE BARBONIA”

Di Antonio Gregolin                                             -testo e foto riservati-

“ER PRINCIPE DE BARBONIA”

Due giorni  in compagnia di Zazà,  il “principe” dei senza tetto romani, adottato da un intero quartiere (reportage 2000)

Ci sono esperienze che vorresti vivere per meglio capire quanto ti circonda. Vivere per qualche giorno fianco a fianco con un  “senza tetto” d’eccezione come Serafino, seguendo i suoi ritmi, si è rivela essere un’ esperienze in grado di cambiare il modo di vedere quelle “ombre di strada” fatte di povertà, ma anche di tanta umanità e un’inaspettata simpatia, come  per il caso di “Zazà”.

 

Nel 2000 , giusto a scavalco tra un secolo e l’altro, ricordando quanto descritto da Stanley Kubrick del ’68, nel film “2001 Odissea nello spazio”, lontani da quella ipertecnologica realtà, la vita sulla terra appare ben altra cosa. A dimostrarlo c’è  “Zazà”  il cosiddetto “principe barbone”. Un “principe” della strada carico di umorismo, incontrato un giorno di fine ottobre sotto il cielo di Roma. E’ uno  che  lo vedi arrivare per poi sparire nel nulla. Un’ombra che sbuca da un vicolo romano. Ombre o “homeless” preferisce chiamarli qualcuno. Uomini che semmai, spesso combattono contro i pregiudizi sociali. Ma questo è  davvero un “prinicipe della strada”: un anziano signore di 75 anni (foto sopra), che alle soglie del nuovo Millennio vive e dorme all’ombra del “cupolone” di S. Pietro. Il suo nome anagrafico Serafino, sembrerebbe avere un ascendente nobiliare: “Ma quale nobiltà?Il rispetto io l’ho raccolto tutto per strada. Anzi in un quartiere…” mi dice lui ironizzando. Ironia  la sua spontanea e tutta romana, tanto da renderlo un simbolo per uno dei quartieri più popolosi della capitale, dove tutti qui lo chiamano “Zazà, er principe de barbonia!”. Anche nei tratti sembra conservare un non so che di nobiliare, il suo volto assomiglia ad uno dei personaggi di Caravaggio -il pittore che sceglieva  dalla  strada  i suoi protagonisti-, ritratti nel quadro Giuditta e Oloferne.

Ho in mente il profilo della “vecchia serva” caravaggesca che trovo somigliante a Zazà. Appena glielo dico, lui risponde: “Ah Caravaggio, grande pittore! A me piace pure  Michelangelo e Bernini. Non è un caso se ho scelto di vivere proprio vicino a loro, tra S.Pietro e Castel S.Angelo. Così posso dire che casa mia l’ha progettata nientemeno che, il Bernini!”. Non sono certo risposte che ti aspetteresti da un cosiddetto “barbone”, tanto che l’icona stereotipata del senzatetto crolla davanti a un Zazà con l’aria distinta e una inusuale eleganza, con la cravatta lisa e una bottiglia di plastica infilata in tasca che gli danno un pizzico di estrosità. “Oh, sono o non sono er principe -dice lui in romanesco-,  me servirebbe solo nà stiratina qua e là. Ma che ce voiamo fà?”. A nessuno però verrebbe da pensare che proprio quel “principe” abbia come regno, uno scatolone e un telo di plastica dove infilarsi per la notte.

L’appuntamento per il giorno seguente è sotto il colonnato di S.Pietro. Lo ritrovo puntuale  con in mano una borsetta  con una mela e una cipolla, “cose  utili per combattere gli acidi urici ai piedi” mi garantisce l’uomo. Per due giorni chiedo  di poter diventare la sua ombra, e lui arricciando il naso mi borbotta: “La gente fa presto a dirti cosa sei o non sei! E nessuno mai mi ha chiesto prima di voler fare la mia vita!”. E’ così che Zazà asseconda la mia inusuale richiesta, non prima avermi detto che non lo vedrò chiedere  l’elemosina come fanno  gli altri: “Ciò di cui ho bisogno, lo ricevo direttamente da quelli del quartiere che mi conoscono e mi vogliono bene. Quando poi fa freddo, me ne vado alle mense popolari o nei centri di accoglienza come quello di “Casa Serena”, nel quartiere Prenestino poco distante dalla stazione centrale”. E’ in questo centro gestito dai Missionari della Carità di Teresa Madre di Calcutta, che Zazà  ha la sua tana segreta e sicura, dove lui arriva puntuale verso le cinque della sera. Prima però pregano insieme, e poi segue un pasto caldo per tutti .

La notte poi la trascorreranno in una delle camerate dove quotidianamente sono ospitate settanta “ombre umane”. “Dopo aver perso la mia famiglia, -mi racconta Zazà- mi sono perso pure io!”. E’ iniziata così, con una perdita affettiva, la sua ormai ventennale esperienza di strada: “Nonostante la sfortuna, -aggiunge il principe- nel mio piccolo continuo a vivere al meglio…”, senza farsi mancare quel buonumore che lo rende così speciale. Da romano verace, conosce tutto della sua città: “Conosco tutti i chiaroscuri di Roma. Tutto ciò che la gente vede e soprattutto quello che non vuol vedere”. Lo fa fin dalle prime ore dell’alba, quando esce dai cancelli di Casa Serena, fino al tramonto quando vi  ritorna. Il suo mezzo di trasporto è  invariato da ormai vent’anni: quel tram numero “96” che  dalla periferia lo porta nel centro cittadino.

“Ovviamente, -confessa lui-, non c’ho mai il biglietto, perché non ho gli spiccioli…”. Capita così che nei giorni di pioggia lui trascorra la sue ore seduto sui tram, per assicurarsi un riparo economico e sicuro: “Gli autisti mi conoscono tutti,  e c’è pure chi tra loro mi offre un cappuccino al bar!” Quando poi scende, incontra i suoi amici seduti agli angoli dei marciapiedi: “Tra di noi– spiega  Serafino- ci conosciamo quasi tutti…”, in questo la povertà non fa distinzioni. Il giornale che quotidianamente ha sottobraccio, lo ritira da anni gratuitamente dalla redazione de “Il Messaggero” in via del Tritone, dove lui entra ed esce come fosse un vecchio cronista, salutato da tutti, direttore compreso. Quando invece torna per strada, sono in molti a fermare Zazà, dicendogli: “Ao Zazà, tutto bene?”. All’incrocio di via Nazionale ad aspettarlo come al solito c’è Zippo, “er vecchio custode de macchine del centro de Roma”, altro personaggio pittoresco, un suo amico d’infanzia con cui condivide  il medesimo destino di strada. I due si lasciano poco dopo davanti all’entrata del piazzale dove c’è la sede dei netturbini della Capitale, famosa per il tradizionale presepio permanente, costruito coi sassi di tutto il mondo.


Zazà conosce benissimo questa zona, come pure il palazzo:  “E’ qui  ho la mia casa estiva”. In pratica una capanna di cartoni sotto cui sono ammucchiati degli stracci colorati e un materasso, il tutto mimetizzato in un angolo del pergolato. “Sono gli stessi netturbini che entrano ed escono  a controllare che nessuno venga a rubare (?) a casa mia” dice Zazà. Quando arriviamo per prima cosa
lui sistema un vecchio ombrello colorato che si staglia tra il grigiore dei muri scrostati.

“Non te spaventà per tutto stò casino! Qui ce vengo quando me capita. Devi sapè che a Roma ce stanno tre cose: er Papa, S. Pietro e poi ci sto io, ma un pochino meno santo. Stamo tutti qua, vicini vicini, anche se er papa e i santi non vengono mai a trovarmi”. Si fa improvvisamente  serio solo quando mi spiega di essere preoccuparlo per un possibile sfratto: “Tra qualche mese, dicono che qui verrà costruito un nuovo palazzo e allora dovrò abbandonare, dopo venti anni, questa mia casa di cartone, e mi spiace tanto!”. “Io sono nato povero, ma libero -aggiunge poi ritrovando un pizzico d’orgoglio-, me possono tojere pure sta casa, ma mai la  libertà! Ora però te porto a fare n’altro girello… N’amo va!”. Imbocchiamo dopo poco una scorciatoia che lui conosce a memoria che ci porta a passare dal retrobottega di un fruttivendolo, mentre lui si fa largo tra la gente prima di raggiungere una drogheria  dove lavora un suo amico d’infanzia.


Vivere per strada vuol dire anche avere bisogno di tutto e di tutti, ma Zazà anche in questo si mostra diverso. Basta osservarlo mentre regala un pupazzetto raccattato chissà dove, al nipotino del droghiere. Una scena da libro “Cuore” con il piccolo che gli tende la mano e il povero che gli sorride: Zazà è fatto così, e sembra averlo capirlo pure il bambino. E’ quasi mezzogiorno e la fame si fa sentire: nella panetteria del quartiere, Serafino entra per chiedere un pezzo di pizza. La fama di “buono” lui se l’è costruita giorno dopo giorno, e la simpatia lo aiuta a non essere costretto a tendere la mano: “Quelli che sono costretti a  farlo –aggiunge lui-, è perché non c’hanno affatto fantasia. Simpatia e cortesia te possono fare magnà!”. Zazà sa così di essere ormai un personaggio pubblico e le persone che lo incontrano per strada gli offrono spontaneamente da vestire e magari gli tendono pure un cartoccio da consumare al parco pubblico: “Come vedi io on chiedo nulla. Son loro a darmi ciò che mi serve, e io ripago con un sorriso!”.  Nel pomeriggio c’0è pure chi lo invita  al bar per fare un giro “di scopone” . E così va tutti i giorni: “Alle volte cambio via, per non annoiare la gente…”. Ma non è astuzia  la sua, semmai
è un’innata simpatia che lo aiuta nella  sopravvivenza.

La cupola di S. Pietro domina sul cielo, mentre il via vai di pellegrini in Piazza S.Pietro è quello caotico  di sempre. I turisti stanno col naso al in su, mentre Zazà osserva pacato questo ginepraio. E’ tardo pomeriggio e l’ombra che ci ripara dal sole è quella proiettata dal grande obelisco sotto cui si siede Serafino. Per diletto non perde l’occasione per mostrarmi quanto conosca l’antica storia di queste mura. Mastica pure qualche parola in inglese, spagnolo e un misto tra tedesco e romanaccio scambiato con qualche turista.   La tecnica sembra rodata con garbo, tanto distinto che qualcuno si ferma ad ascoltarlo. Non passa qualche minuto che il vecchio Serafino, calamita l’attenzione  di una scolaresca: “Stì ragazzetti, mi ricordano i tempi dell’infanzia, quando la mia Roma non era certamente come quella che vedete oggi voi qui…”. Si disseta pure lui alla fontanella come fanno i bambini. Sembra avere un rapporto privilegiato con loro, favorito da quell’aria da “tenero nonno” che non lascia trasparire la sua  condizione. I pregiudizi in questi casi sono armi che Zazà sembra trattare con disinvoltura e altrettanta dignità.


La giornata volge ormai al tramonto e lui congedandosi dal gruppetto di ragazzi, riprende la strada del ritorno verso Casa Serena. Chissà se sa di essere un pezzo della Roma più “verace”, di quella genuina ed estemporanea che tanto piace a chi la visita. Lui è un romano vero, ma più ancora un autentico cittadino del mondo:
“Non ho più la mia famiglia – conclude l’anziano-, ma in compenso sono stato adottato da un intero quartiere. Fortuna che non tutti hanno! Non credi?”. Quello che ora l’attende è  una nuova  notte in una camerate del centro d’accoglienza. Zazà torna così nel suo mondo: nell’ombra. L’ultima immagine radiosa però del “principe de barbonia” è quella di vederlo allontanarsi nella foresta di colonne del Bernini: “Le mie colonne..” come le definisce lui, dove compare e scompare mentre mi saluta con la mano, quasi a segnare il destino di chi vive ai margini del mondo, pur stando al centro di una Capitale dove  Zazà ha il merito di essere a modo suo un “autentico maestro di strada” .

 

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