11 SETTEMBRE2001

di Antonio Gregolin                                                                    – testi e foto riservati-

ANTOLOGIA DI UNA TRAGEDIA

NELLE   STRADE DI NEW YORK

La verità è quella trasversale di tutte le guerre e tragedie: il tempo sana le ferite. Lo stesso è valso per il dramma che New York ha subito con l’attentato alle Twin Tower dell’11 settembre 2001.

Qui, dove tutto è volutamente amplificato e fa presto a rivestirsi di nuova trasgressione, ciò che resta del dramma profondo, lo trovi ancora per strada, dentro le famiglie o le coscienze dei singoli. La memoria affiora anche nei luoghi  dove i newyorchesi si mescolano con i cinesi, italiani, sudamericani, africani, pakistani e afgani: quelli  che qui chiamano il “popolo della city”.

“New York in fondo, conferma di non essere l’America… ma molto di più!”.Una città senza volto,  dalle mille facce, che oggi ha un dramma divenuto una “stigmata storica” che accomuna tutti in una anomala integrazione che abbatte ogni limite di quartiere, finendo col rendere uomini anche gli “homeless” che spuntano come ombre nella notte tra i vicoli della  Big Apples . Uguaglianze e capricci della storia che qui tange tutti, dal basso all’alto di una società vorticosa che si reputava invulnerabile. New York  si maschera, ma anche si dispera. Come capita a coloro che hanno oltrepassato la linea rossa della tragedia. Qui come in Bosnia, Ruanda, Afganistan, il dramma si ripete inesorabile anche per quello che gli americani definiscono come il “primo atto di guerra in patria”.

Questi sono gli stralci degli  articoli che ho scritto in quelle quattro settimane trascorse a NY dal 20 settembre alla fine di ottobre 2001.


IL CIELO SOPRA NY.

…Il Word Trade Center si mostra come un gran braciere dove si è consumato il sacrificio. Da poco sono stati spenti gli ultimi focolai, e la nube di fumo che i newyorchesi si erano rassegnati a vedere per settimane dopo l’11 settembre, si è rarefatta, sgombrando il cielo sopra New York. La cenere  è caduta per giorni e giorni come avvenne sessanta anni fa nelle città vicine ai campi di sterminio nazisti.  Anche lì, fu per pazzia di un uomo o degli uomini!…

HO VISTO IL MIO AMICO ANDARSENE IN FUMO”

Il cielo di New York  è tornato a farsi sereno, dopo settimane. Ma le coscienze sono rabbuiate, come quella della giovane romana Francesca De Graff,  di 28 anni, da tempo trasferitasi a lavorare a NY, che  mescola l’ansia ai  racconti di un amico che  se né “andato in fumo”. “In questa città -racconta lei- dove tutto supera le dimensioni umane e l’individualismo è quasi una legge, tre anni conobbi  fa un amico. Uno di quelli che incontri casualmente senza immaginare che diventerà uno dei tuoi affetti più cari. L’ultima volta che vidi Scott fu la fine di agosto, sette giorni prima dell’attentato.

Lui si  era sposato solo  poche settimane, e mostrava tutto  il carico di gioia che si portava in corpo. Era tornato a lavorare nel suo ufficio in una delle due Torri tre  settimane prima della tragedia. Ma quel maledetto mattino di settembre,  con un cielo terso come è oggi sopra i grattacieli di NY, lui non è scappato all’appuntamento con la morte”. “Così Scott non lo rivedrò più –racconta la giovane- , di lui non è rimasto altro che un pensiero su cui piangere”. Un ricordo strappato al dramma di molti altri: “Anche lui da settimane è  diventato un “missing”, uno dei migliaia di  dispersi tra quelle colonne di fumo”.

“Ancor oggi -conclude Francesca con le parole rotte dalla commozione -, non posso immaginare di aver respirato il mio miglior amico” dice guardando l’enorme groviglio di cemento e ferro che è oggi Ground Zero, osservato dal tetto di un grattacielo a pochi metri di distanza, dove siamo giunti eludendo la sorveglianza. “Essere qui equivale ad aver dato l’ultimo saluto a Scott!”. Francesca  inspira profondamente e poi lancia un bacio al vento. Quel vento dove ora riposa il suo amico di un tempo.

HAI IL TURBANTE? ALLORA SEI UN TERRORISTA”

Solo da poco Shuja Chughtai, pakistano di origine ed emigrato vent’anni fa in America, ha ritrovato il coraggio di rimettersi il turbante: “Subito dopo gli attentati -racconta l’anziano imam mussulmano che quotidianamente assiste i prigionieri nelle carceri-, centinaia di nostri fratelli sono stati arrestati. Le carceri di NY sono stracolme di persone trattenute per scopi cautelativi”. “Per strada ora la gente ci guarda con sospetto. Fin dai primi giorni dopo l’attentato  -ricorda l’Imam-, ci guardavano per via del turbante e della barba,  dicendoci senza troppo ritegno: “Terroristi!” “Da allora e per qualche mese ho preferito togliermi i segni distintivi, per evitare discriminazioni. Ho tolto il  turbante ma mi sono tenuto la barba. Oggi  a distanza di qualche mese ho ripreso le mie abitudini, anche se so che molte cose sono cambiate e credo che molto dovrà ancora cambiare per questa America, se vorrà continuare a vivere in pace con il resto del mondo. E sebbene questo clima di tensione ci faccia sentire tutti noi stranieri mussulmani come dei responsabili, è vero anche che se  questo fosse capitato in India ad esempio, ci avrebbero già sterminati tutti! Anche se sto meditando di andarmene e tornare nella mia terra, ripeto anch’io oggi e sempre “God bless America.”

QUEGLI ITALIANI “TRA LE TORRI”

…L’odore acre del fumo che si leva dalla voragine occultata dai grattacielo, arrivava  fino nel quartiere della vicina “Little Italy”. Una zona storica oltre che turistica, tra le più celebri. Roccaforte dell’italianità ora insidiata dalla predominanza della vicina China Town. Anche qui la crisi è evidente dopo l’11 settembre 2001, come sottolineano i molti gestori di ristoranti dai nomi italici, quali: Sorrento, Napoli, Palermo ecc. : “Qui – ci dice Franco G. di 47 anni calabrese, molti dei quali passati in varie parti del mondo e giunto dieci anni fa a NY per vendere sigari italiani e cubani-, il vero emigrante tipo è scomparso del tutto. Non ci sono più i poveracci che arrivano in cerca di fortuna. Chi arriva oggi, è semmai il laureato in cerca di  laboratori di ricerca o fondi. E’ il businessman in carriera, assai diverso dalla generazione che ci ha preceduto. Ormai qui sono quasi tutti di seconda generazione, sta  di fatto che dopo il crollo delle torri, niente è più come prima: sia per noi sia come gli americani. Per capirlo basta che lei metta il naso fuori di qua!”. “Il sogno americano, forse è finito per sempre…probabilmente presto torneremo a vedere le macchine di seconda mano. Spariranno molte limousine che  circolano per le strade. Già ora sono molti meno quelli che vengono nei ristoranti italiani e non solo…” “Dopo gli attentati sto pensando  di rientrare in Italia. L’America è una grande casa per  tutti, ma non è più il sogno di molti”.

IL VETERANO DELLA LITLE ITALY: “MAI VISTO NULLA DI SIMILE”

E’ seduto in un cantuccio del suo negozio tra santi di gesso e giornali italiani che vende ormai da più di settant’anni in una delle strade più note del quartiere italiano. Lui è considerato da tutti il grande vecchio degli italiani di New York. Figlio di immigrati napoletani,  Rossi Luigi ha oggi 91 anni e nonostante due bastoni che lo aiutano a camminare, non ha perso lo spirito del commerciante che “è qui da una vita”. Era seduto nella stessa sedia anche quell’undici settembre quando, sotto il crollo delle due torri moriva anche un suo nipote pompiere di appena trentacinque anni.

“E’ stato tremendo..” commenta il decano Luigi. “Nella mia vita ne ho viste tante, ma mai dovete credermi, ho vissuto una tragedia del genere.” “Credo  che da quel giorno anche la mia New York sia morta…” “Qui non passa più nessuno, vendi uno o due giornali al mattino, e poi aspetti che arrivi la sera.” “Ai miei tempi – racconta Luigi Rossi- eravamo tutti o quasi poveri; diciamo così che tutto era più facile. Oggi l’America è diversa….tanto diversa a tal punto che stento a riconoscerla!“.

SONO SCAMPATA AD UNA GUERRA, NE’ HO VISSUTA UN’ALTRA

Quando parliamo del futuro, Marisa Cerlieco di 62 anni, emigrata nel lontano ’69, esclama: “Sono molti anni che vivo qui. Ho fatto la mia vita  in compagnia di mio marito Edoardo e mai come ora  non vedo un futuro per noi..” Il suo è un italiano  che sa poco di americano e molto ancora di triestino. “Come posso dimenticare la mia Italia!” ci dice la signora Marisa. “In questi mesi purtroppo, sto rivivendo la mia seconda guerra, dopo che all’età di otto anni, scampai come profuga la provincia di Pola con la convinzione che per noi istriani e dalmati quello era un secondo Olocausto”.”Soffro terribilmente  per questa America che non si meritava questo affronto.”

“Quando ho visto le due Torri accartocciarsi, – ricorda la signora Marisa con gli occhi lucidi – mi è tornato alla mente tutto il mio passato che speravo di aver dimenticato.  Ho vissuto delle emozioni così intense  che, vedendo tutto quel dolore e disperazione ho cominciato a piangere. E’ stato terribile!”  “Mia nipote quel dannato giorno mi ha telefonato da Las Vegas per dirmi: zia sei viva? Cosa hanno fatto alla mia NY!”. “Vorrei  ricordare a coloro che continueranno a vivere in America, soprattutto ai giovani, di continuare a credere nelle radici  democratiche di questa terra, anche se so che questo è il momento peggiore della mia vita qui. Non per questo perdo il coraggio e la forza di dire agli italiani di non dimenticare la memoria della mia gente che combatté allora contro un’altra violenza perpetrata contro noi istriani e dalmati durante la guerra. Anche allora come oggi,  fu contro civili innocenti…”.

NOI RAGAZZI VISSUTI ALL’OMBRA DI UN SIMBOLO

Sono giovani  americani come ce li immaginiamo: in jeans, pallone da rugby in mano e gli immancabili cappellini alla moda (in questo momento vanno per la maggiore quelli dei pompieri di NY), sandwich e qualche sigaretta. Tra tanti anche una testa colorata di blu che si aggiunge ai diversi colori delle facce di questi giovani. I più sono cinesi, indiani, filippini, pakistani o irlandesi. L’universo dei giovani di NY continuano a  risponde agli stereotipi che ci ricordano la “Big Apple”. Tra loro c’è Alexis, una ragazza con un sorriso nascosto da un apparecchio. Alasm  invece, ha un velo nero che le inquadra  il dolce viso.

In comune hanno l’età, 17 anni, lo zainetto che portano sulle spalle e la città in cui oggi vivono. Ragazze come tante, se non fosse che quell’11 settembre loro  si trovavano  proprio nella scuola che sorgeva a pochi metri dal Word Trade Center. In pochi istanti, inconsapevolmente,  sono diventate da studentesse a testimoni. Hanno visto tutto dalla finestra della loro classe, spalancata come una pagina di storia: “Doveva essere un giorno di scuola qualsiasi, – racconta Alexis-, quando improvvisamente un forte boato ha fatto tremare l’intero palazzo. Le luci si sono spente, poi il fumo….”. “Dall’alto cadevano pezzi in ogni direzione – aggiunge Alasm,-,  come una pioggia di meteoriti. Fu allora che vidi cadere dalle torri persone simili a foglie…”. Un mese dopo, loro continuano a frequentare la stessa scuola anche se in un nuovo edificio non lontano dal “Ground Zero”. Tutte le mattine percorrono un tratto di strada dove i mezzi di soccorso si mescolano ai bus di linea e al traffico.

“E’ inevitabile  dopotutto  che oggi le nostre vite siano cambiate – mi risponde Alexis-, l’idea stessa dell’America è cambiata, così come il nostro amore per  questo Paese. Oggi anche noi ragazzi sentiamo uno spirito nazionalistico che non sapevamo di avere”. Basta però il rombo di un aereo, uno dei tanti che quotidianamente sorvolano New York per attirare l’attenzione di tutti. Un flashback che non ha bisogno di  giustificazione alcuna, ma  che passa presto  e fare tornare sui volti delle ragazze  il fresco sorriso:

“Nonostante la paura, raccontano loro, la gente  è ritornata nei grattacieli con la voglia di continuare a vivere anche se sotto di loro hanno l’enorme deserto di cemento  del WTC.”.“Qui a Manhattan mi sento sicura risponde Aslam che porta il velo della tradizione islamica-, diversamente sarebbe se vivessi nei quartieri come il Queens o Halem dove le diversità razziali sono più marcate tra le diverse comunità raziali. I miei compagni sono  stupendi, – afferma la giovane mussulmana-  e sebbene se in classe  sia l’unica con il chador, tutti sono stati molto comprensivi e solidali con me. Anche perché conoscono la comunità islamica da cui provengo. Qualcuno si è offerto addirittura di proteggermi per strada..” .

“Il  velo rappresenta il simbolo della mia fede, dei valori in cui credo”, risponde Alasm. “L’Islam  è contro ogni violenza compreso il suicidio messo in atto dai terroristi che ci hanno colpito. La loro è stata una visione  troppo restrittiva che ha escluso tanti altri insegnamenti che vanno contro ciò  in cui crediamo. Quello, non è il mio Islam! Non vedo il motivo di andarmene, New York è la città in cui voglio continuare a vivere anche dopo gli attentati”. Anche la sua amica Alexis è d’accordo : ” Oggi amo più di prima questa città. Sono nata e cresciuta  a NY ed anche se fino a qualche mese fa consideravamo l’ipotesi di poter frequentare l’università in altri Stati.

Oggi, sia io e molti della nostra scuola,continueremo i nostri studi restando qui.Ciò che ho vissuto spero non si ripeta più per nessuno altro al modo quello di cui sono stata testimone, ha cambiato in me il concetto stesso di vita e di vivere.Forse, sì, ci ha migliorato un po’ tutti…Abbiamo imparato a non dare più niente per scontato. Compreso che la vita può cambiare da un momento all’altro. A  essere diventati importanti sono i nostri stessi piccoli gesti  quotidiani. Banali, se volete, ma importanti perché non credevamo facessero parte di quella normalità che ci è venuta a mancare improvvisamente. Abbiamo così una comprensione più profonda della vita. Talmente profonda che capire questa nostra esperienza senza averla vissuta, è  impossibile!”.

“Anche i nostri sogni sono mutati – incalza Alasm-, spesso mi trovo a sognare una moschea in fiamme”.”Quando mi sveglio  – ricorda Alexis-, ho in mente gli aerei e la gente che fugge via. L’idea del rombo dei motori di quegli aerei che hanno sorvolato la nostra scuola per poi schiantarsi nelle Torri Gemelle. Questo mi perseguita  anche ora perché abito a pochi chilometri dall’aeroporto JFK  e sento costantemente quei rumori  dentro e fuori la mia testa”. Ma l’opinione che  hanno della guerra in Afganistan è una questione ancora più personale : “Per me – risponde la ragazza mussulmana – i bombardamenti  in Afganistan non fanno altro che peggiorare la situazione internazionale”.

“E’ ovvio -continua- che non posso non  nutrire simpatia per la popolazione inerme che lì viene colpita. Non ci si rende conto  che i bombardamenti non risolvono i problemi , semmai  finiscono per alimentare il terrorismo…” . Alexis ascolta e poi aggiunge: ” Io sono americana, dunque credo e spero che la guerra sia mirata a catturare i responsabili. Certamente non è volta a piegare il popolo afgano, ma sta di fatto che questa guerra è diventata per noi  un fatto  personale.  Per noi la guerra era l’immagine dei nostri soldati che combattevano all’estero, lontani dal loro Paese. Ora invece, riguarda un concetto più diretto che  tocca  tutti,  adulti e bambini” cosa  che in America accadde solo per la guerra in Vietnam!

“QUEL CAMBIAMENTO DI CUI NON SI PARLA”

L’intervista con il cardinale Egan, testimone dei fatti.

Il grande “braciere ” da qualche giorno ormai ha finito col bruciare tutte le speranze di restituire i corpi delle vittime. Sessanta giorni dopo il crollo delle due torri, sono stati spenti gli ultimi incendi a “Ground Zero”. Un segno di normalizzazione dopo mesi e mesi di afrore a cui la gente si era ormai abituata per “tornare a vivere una vita normale”come si augurava l’allora sindaco Rudolf Giuliani mentre passava il testimone al suo successore Judith Nathan. A fianco della città che vuol riscattarsi, resta quella sprofondata nel dolore delle migliaia di famiglie, degli affetti dissoltisi tra la polvere delle torri, a cui spesso non rimane altro che un oggetto su cui piangere Un cambiamento morale e civile che il cardinale Egan, arcivescovo di New York, ha riassunto in questa intervista all’ombra della cattedrale di S. Patrick nel centro di Manhattan. “Ogni situazione – spiega il porporato- , ogni dramma o evento in cui il vissuto passa attraverso  il dolore, è un’esperienza spirituale per tutti. In fondo, questo nostro dolore e la dimostrazione che il sangue come la speranza, non fa distinzione di razza o nazionalità. E’ un peccato che la stampa internazionale si sia lasciata sfuggire in questi mesi di cronaca, quelli che sono gli esempi di fede e i simboli di speranza più autentici  dell’esperienza umana dei cittadini  gente di New York!”

Nel suo recente viaggio in Italia, lei ha parlato di un esame di coscienza da parte di tutti gli americani?

“Quando mi chiesero se gli americani si fossero fatti un esame di coscienza,  risposi che sicuramente se lo stavano facendo, ma dissi anche  che il vero esame di coscienza non deve essere fatto solo in casi straordinari come questi, ma dovrebbe essere una pratica costante per tutti gli uomini di ogni nazionalità”.

Lei è passato da una  tranquilla diocesi del Connecticut a  guidare la  chiesa di New York in uno dei momenti più difficili della sua storia. Come ha vissuto questa esperienza?

Appena un anno fa fui inviato dal Papa a  guidare la chiesa newyorchese passando dalla tranquilla diocesi di Bridgeport, a quella più concitata e multietnica di New York. Pensavo fosse solo un  passaggio  istituzionale che presto mi avrebbe portato ad assumere le abitudini della grande città, visto anche le mie passate esperienze in altre parti del mondo, come i vent’anni trascorsi in Italia. Invece, mai mi sarei  aspettato di poter  diventare il testimone oculare di quella tragedia che ha cambiato le sorti  di migliaia di persone. Una lezione di vita che certamente sarà impossibile dimenticare!”

Quali sono i ricordi che ha della tragedia?

In quei giorni nelle ripetute visite alle rovine, osservando il lavoro della nostra gente che opera tra quelle macerie ho visto tante volte la santità. Dopo quei tragici fatti sono entrato in molte famiglie colpite dalla perdita di uno o più famigliari: uomini onesti che lavoravano per portare a casa il pane alle loro famiglie. Solo qualche giorno fa celebravo un memoriale di uno dei tanti pompieri dispersi e mai ritrovati. Ha lasciato cinque figlie e due ragazzi adottivi: due orfanelli arrivati dall’Irlanda. La sua era la vita normale di un padre di famiglia che da solo sfamava cinque bocche ed accoglieva due figli adottivi. Di lui ora non rimane che cenere; ma questo non importa a chi vuol solo parlare delle star di Hollywood o dei politici! Ma questa è solo una delle tante storie che viviamo quotidianamente nella nostra città, fatta ancora di persone.

Com’è  allora questa America di oggi?

E’  l’altra America di cui non si vuol mai parlare. Quella che vediamo nelle chiese,  tra le pareti di casa o nei confessionali. Insomma, quella gente  che vuol continuare a sperare con l’aiuto della preghiera. Tutto questo lo possono confermare i molti sacerdoti, anche italiani, impegnati nelle diverse chiese di New York, nelle strade o nelle diverse comunità.

Lei è stato tra i primi a giungere nel luogo del disastro, qual è l’esperienza umana e pastorale che oggi si porta dentro?

La mia esperienza in questi tre interminabili mesi è ricca di grandi e piccoli gesti quotidiani che mi riportano costantemente alla memoria quelle indelebili ore trascorse a pochi metri dalle Torri Gemelle. Quel giorno con l’aiuto di un poliziotto che abitualmente sosta qui fuori, raggiunsi quasi subito l’area del Word Trade Center. Lì c’era il caos più totale. Mi dissero di correre all’Ospedale di S.Vincenzo per accogliere i morti. Andai e mi trovai a fianco con un gruppo di soccorritori. Venni a sapere da un dottore che suo padre lavorava al centoquattresimo piano della Torre Uno. Ricordo d’avergli detto di andare a cercare subito suo padre. Ma la sua risposta fu decisa: “No -mi rispose il medico- devo rimanere qui!”. Qualche settimana dopo, fu lo stesso medico a scrivermi una lettera piena di sentimento e fede, in cui mi diceva che suo padre era un “missing”, uno dei tremila morti mai più ritrovati.”

Sul piano internazionale , secondo Lei come sono cambiati i rapporti dell’America con il  resto del  mondo?

Lasciamo da parte per una volta la questione politica o internazionale e fermiamoci a capire ciò che sta avvenendo dentro i cuori  della nostra gente! Per comprendere a fondo l’animo di questo popolo, che vive e lavora tra i grattacieli bisogna prima scrollarsi di dosso molti pregiudizi. C’è un’America di cui volutamente non si vuole parlare…

Per concludere, lei ha  sottolineato la nascita di un nuovo modello di santità. Quale?

In questo periodo ho avuto la grazia di poter vedere una quantità tremenda di santità. Forse laica, ma con una spinta che rasenta il soprannaturale. Ricordiamoci comunque che il dolore  così come il sangue, sono uguali in ogni parte del mondo. La nostra gente l’ha dimostrato e lo sta dimostrando con un impegno umano che richiede ancora un prezzo alto da pagare in fatto di sicurezza. So ad esempio, che  in molti casi ci persone che hanno lavorato come pompieri, ma anche come operai al Ground Zero, che sono tenuti sotto stretta  sorveglianza medica per colpa degli effetti collaterali causati dalla micidiale polvere che hanno respirato. Non sappiamo ancora cosa ci aspetta nel futuro..”, conclude il cardinale di New York, lasciando intendere che molta della strada tracciata dalla nuova santità deve essere ancora percorsa.

L’ALBUM DELLA MEMORIA

1 Responses to 11 SETTEMBRE2001

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *