L’ALPINO CHE HA SUPERATO IL SECOLO

di Antonio Gregolin -copyright 2012 foto e testo-

SUL CAPPELLO… DELL’ULTIMO REDUCE ALPINO

E’ stato una delle icone delle adunate nazionali degli alpini, Cristiano Dal Pozzo di Rotzo sull’Altopiano di Asiago , scomparso il 28 marzo 2016 a 102 anni, reduce dell’Abissinia,   da oltre quarantacinque anni non salta un appuntamento. L’ultima sua Adunata a Pordenone nel 2014, poi quella Triveneta di Conegliano nel 2015. Fino all’ultimo ha sfidato il tempo e la storia, nel nome della memoria 

Di alpini veri, quelli cioè che hanno combattuto al fronte, ne sono rimasti pochi. Anzi, pochissimi, tanto che ogni anno c’è chi fa la conta dei reduci per capire chi è presente, e chi invece è “”passato oltre”. Il più longevo degli alpini, Giovanni Andriano 105, si è spento nel Canavese solo pochi mesi fa. E chi resta, continua a segnare il passo nelle sfilate alpine nazionali. Tra i più arditi e motivati ormai è rimasto solo lui, Cristiano Dal Pozzo, 98 anni di Rotzo sull’Altopiano di Asiago (Vi). Un alpino quasi per destino, visto che è cresciuto e vissuto respirando l’aria della  Grande Guerra. Granitico come le sue montagne ha una volontà di ferro nonostante i due bastoni su cui si sostiene: “Là c’è Asiago, lì Roana, el mè  paese Rotzo el zè drio ea costa dea montagna…” mi spiega l’anziano sull’uscio della sua piccola casa che guarda un campo di patate che hanno permesso di sfamare un intera generazione dei Dal Pozzo: le stesse che poi avrebbero reso celebre il paese  per la bontà dei suoi gnocchi.

E’ questa la geografia di una vita.
Quel “mondo antico” che il vecchio alpino Cristiano conosce a mena dito: “Anca a oci sarà”, aggiunge lui ironicamente. “Qui di vecchio ci sono le montagne e poi ghe son mì, coi me novantotto anni”, confermati dall’anagrafe comunale: 1 dicembre 1913. Quassù è naturale che Cristiano sia ormai una personaggio pubblico, con tanto di book stampa e fotografie con presidenti e ministri durante le tante adunate nazionali cui è mancato solo due volte. “El discorso se fa lungo – replica l’anziano sull’uscio di casa – ze mejo che el vegna dentro!”.  E con noi entrano spedite anche quattro galline: “Sho, sho -fa lui con un gesto di mano- quando se ze veci, anca le gaine ga pietà de tì”. S’intuisce che lo spirito non gli manca, come la volontà d’indipendenza che lo porta ancora a rifiutare l’invito dei tre figli che lo vorrebbero a casa con loro: “Qua sto’ benon!” è la risposta.Basta allora qualche data perché i ricordi riaffiorino in lui con estrema lucidità, coloriti da quel vigore degli ultimi “cimbri” di Asiago, testimoni di un passato che qui è impregnato dei racconti dello scrittore, Mario Rigoni Stern. 

Ma l’alpino Cristiano non è un letterato, e tanto meno uno scrittore. I suoi appunti gli servono  per rinfrescargli la memoria. Tre foglietti scritti di pugno con una calligrafia ancora precisa che ci riportano a quel 1935-1936, nel deserto dell’Etiopia, seguito poi dalla Libia nel 1943, passando poi per Bolzano, fino a cadere dopo l’8 settembre del 1945 prigioniero dei tedeschi in un campo di concentramento, “dove ho cercato di sopravvivere alla fame e alle pulci”. Da giovane alpino colonialista fascista a prigioniero, il tutto nei dieci anni della sua gioventù trascorsi al fronte: “Ci riempivano la testa dicendoci che avremmo visto cose grandi e fondato un impero. Ma alla fine, ero partito povero e sono ritornato sconfitto. La guerra è sempre una cosa sporca, ma noi “coloniali” eravamo convinti di portare la tecnologia che avrebbe permesso lo sviluppo delle popolazioni indigene del Negus. Ci sbagliavamo!”commenta lui oggi.

La mia fortuna è stata quella di rimanere nelle retrovie con l’incarico di marconista: addetto cioè alle trasmissioni. Non ho mai sparato un colpo o ucciso alcuno, perché ero impegnato a trasmettere agli alti comandi le informazioni dai campi di battaglia”. Una specie di cronista, insomma: “Il mio compito era raccontare la guerra a qualche centinaio di metri dal fronte e riferire ai comandi ciò che avveniva. Cosa per niente facile, quando si trattava di descrivere orrori!”. “Ricordo ancora l’eccitazione che avevamo noi giovani combattenti volontari, partiti per colonizzare l’Africa. Non avevamo paura, solo  perché eravamo incoscienti…”. Ora che la storia ha svelato tutti gli errori di un periodo storico che ha provocato milioni di morti, a Cristiano gli si arrossano ancora occhi rossi quando fa memoria del suo passato. Gli stessi ricordi che “continuano a tenermi compagnia durante i lunghi e freddi inverni che abbiamo qui. 

 Sul tavolo della cucina ricoperto da una tovaglia cerata è appoggiato il suo cappello deforme da alpino: un vero e proprio cimelio di guerra. Un cappello color sabbia con la penna ormai ridotta ad uno stelo: “E’  l’originale –precisa Cristiano-, compresi i rinforzi in sughero e gli occhiali originali e poco funzionali,che mi servirono nei deserti durante la  Campagna d’Africa del 1935. E’ tutto quello che mi  rimane di quel periodo, con  due croci di ferro al valore militare”.

Ricordo l’eccitazione che allora avevamo noi giovani combattenti volontari, partiti per colonizzare l’Africa. Ci riempivano la testa dicendoci che avremmo visto cose grandi e fondato un impero. Ma alla fine, ero partito povero e sono ritornato sconfitto!”. “La guerra è sempre una cosa sporca, ma noi “coloniali” eravamo convinti di portare la tecnologia che avrebbe permesso lo sviluppo delle popolazioni indigene del Negus. Ci sbagliavamo!”. Gli alpini comunque lui non gli ha mai lasciati; li porta nel cuore e quando settantacinque anni dopo racconta di quelle gesta nel deserto, gli brillano ancora gli occhi: “Non avevamo paura, solo  perché eravamo incoscienti…”.

Non conoscevamo nulla dell’ambiente africano dove ci spedirono, per di più male equipaggiati. Vidi così il mare per la prima volta il giorno stesso della mia chiamata alle armi. La guerra però Cristiano l’aveva sfiorata fin da piccino, quando nel 1915 le truppe austroungariche occuparono l’Altopiano e la sua famiglia fu costretta a migrare in un paesino della pianura dove rimasero per venti anni come “sfollati”. Tra una guerra e l’altra per Cristiano arrivò anche il tempo dell’amore, con Angelina Belfiore. Richiamato al fronte all’inizio della Seconda Guerra mondiale, Cristiano viene spedito nuovamente per l’Africa.

Quando fa ritorno a casa sono passati quattro anni e una vita da rifare. Dalla pianura ritorna nella sua Rotzo a coltivare patate. Mezzo secolo dopo, prossimo al suoi cento anni, ha stabilito a chi lascerà i suoi cimeli: lo storico cappello e divisa da alpino. Lo regalerà al museo locale di storia. Intanto, si prepara alla prossima adunata di Bolzano: “Certo che vorrò esserci –aggiunge lui- sono più di quant’anni che partecipo, e non sono mai mancato, inclusa quella di Latina nel 2009, a 96 anni”.

Girare non lo stanca perché “mi fa sentire libero e vivo”. Una vitalità la sua, che esplode proprio quando sotto una cascata di applausi, l’alpino centenario sceso dalle montagne di Asiago, sfilerà lungo i viali di Bolzano, anticipato da uno striscione che ricorda i reduci dell’Abissinia. E’ ormai rimasto solo l’alpino Cristiano, ma forse è questo che gli fa mostrare uno scatto d’orgoglio: i cento metri davanti alla tribuna delle autorità, lui li vuol ancora  sulle proprie gambe, distribuendo sorrisi e baci, come una star col cappello da alpino.

_______________________

1 dicembre 2012

 UN PASSO DAL SECOLO

“E’ il pellegrino più longevo che annualmente ci viene a fare visita” assicura il rettore della basilica del Santo, accogliendo ieri l’alpino veterano di Rotzo, Cristiano dal Pozzo, 99 anni compiuti lo stesso giorno. Un vecchio pellegrino che da ben 47 anni il giorno del suo compleanno, lui pensa al  Santo: “Vengo giù dalle montagne per ringraziare chi mi ha permesso di tornare a casa con le mie gambe dalla Campagna d’Africa, dal 1935 al 1943, e di ritorno dall’Abissinia, venni poi fatto prigioniero dai tedeschi ed internato in un campo di lavoro nei pressi di Linz in Austria, fino al 1945”. La sua è una storia lunga, iniziata come alpino volontario al grido di “armatevi e partite per conquistate” e finita con l’umiliazione della prigionia e la povertà che si è ritrovato tornando a casa sull’Altopiano di Asiago. “Ea ze sta dura-ripete lui sessantasette anni dopo i fatti, con ancora la voce e le lacrime per l’emozione- ma gò porta casa ea pele, anca par grasia de Sant’Antonio che me gà iutà!”. Preghiera semplice vissuta e genuina la sua, condivisa con il resto della comunità francescana del Santo, dove l’alpino Cristiano viene accolto con fraternità. Di memoria l’alpino Cristiano ne ha da vendere, visto che ricorda luoghi e date con la vivacità “de un bocia che ga visto la morte in facia”. Soprattutto nel periodo della prigionia  tedesca, quando fame e pulci l’avevano ridotto a pesare poco più di un sacco di patate: “Quando tornai a casa, stentò a riconoscermi anche mia madre” aggiunge lui. Lontano da quei momenti, ma con il pensiero a chi non è tornato dal campo di battaglia, Cristiano Dal Pozzo è tornato ieri puntuale all’appuntamento alla porta della basilica del Santo, con il suo solito cappello chiaro in testa da alpino del deserto, lo stesso che utilizzò durante la campagna d’Africa con al petto le sue due inseparabili medaglie al merito di guerra. Figura che sembra uscita da un libro di storia, che sorregge la sua vicenda personale grazie a due bastoni di corniolo per aiutarsi a camminare che si è fatto da solo. Roba spartana ma efficace, com’è lui ancor oggi sulla soglia del prossimo centenario. Ormai l’alpino dell’Altipiano è di casa tra i frati di Padova, al punto che ogni primo dicembre gli preparano un posto a tavola nel loro refettorio. Da cinque anni ad accoglierlo trova sempre padre Enzo con tanto di cappello con la penna in testa. Il veterano di guerra e il frate alpino con l’esperienza della naja, sono amici. Si abbracciano senza formalismi, anche se la comunità francescana  riserva a Cristiano l’accoglienza di una autorità, con tanto di banco preparato a festa in Basilica per la messa officiata dallo stesso rettore e predica a tema con una appendice personale a fine messa, quando il frate consegna il microfono a Cristiano per le sue canoniche parole di saluto e ringraziamento. Poi il pranzo con le candeline sulla torta e la firma nel registro delle autorità, prima dell’omaggio finale. Un programma che Dal Pozzo pare conosce bene, che lui ricambia con quella semplicità di montagna che lo rende essenziale anche nei ringraziamenti. Tanto essenziale che le poche concise sue parole che echeggiano tra le navate della basilica sono state: Auguri a tutti e mai più guerre!”. “Questa è la mia è penultima pagina del libro…” aggiunge poi quasi a voler lasciare aperto il discorso per l’anno prossimo quando lui celebrerà il centenario. “Se avrò gambe, tornerò se mi vorrete ancora -ha detto rivolgendosi ai frati- e ve portarò ancora le me patate de Rotzo!”, mentre padre Poiana gli ricordava come l’anno prossimo quel suo compleanno cadrà di domenica e allora la messa sarà solenne con tanto di  autorità presenti. Dal Pozzo ricambia con un sorriso, disarmante e sincero, sgranando gli occhi dicendo: “Ostia, i me voi davero ben qua!”. Con un solo rimpianto: “Non poter arrivare più da Rotzo come ha fatto fino a quattro anni fa” quando Dal Pozzo saliva da solo sulla prima corriera di linea alle 6 del mattino, diretta a Padova, per fare ritorno a casa nel tardo pomeriggio, per quel suo pellegrinaggio che lui vuol compiere almeno fino ai suoi ormai prossimi cento anni.

L’ALPINO DEI MONTI SI E’ SPENTO SERENAMENTE ALL’ALBA DEL 28 MARZO 2016 PORTANDOSI NELLO ZAINO 102 ANNI DI VITA, AVVENTURE E RICORDI.

_________________________________________

SCATTI DI MEMORIA …da Bolzano 2012

10 Responses to L’ALPINO CHE HA SUPERATO IL SECOLO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *