LA GUERRA CI HA RESO FRATELLI

di Antonio Gregolin  -tutti i diritti riservati su testo e foto copyright 2013-

 LA GUERRA CI HA RESO FRATELLI
La storia di due ragazzi, Suvad di Sarajevo e Davide di Vicenza. Uno figlio della guerra, l’altro che lo sente come “fratello”, come conseguenza “positiva” di un conflitto durato quattro anni alle porte dell’Italia  che grazie ad una Associazione di volontariato apre uno spiraglio sulla storia passata e futura della Bosnia.

 Ci sono i riconoscimenti dati dagli uomini e quelli più imperscrutabili offerti dalla storia. A quasi venti anni dalla fine del conflitto in Bosnia, la storia di due ragazzi, Suvad Cibra 27 anni di Sarajevo (nella foto a sx) e Davide Travaglini 17 anni di Torri di Quartesolo (nella foto a dx), segnano una svolta. Il primo cresciuto con la guerra, il secondo diventato amico fraterno di quel bambino giunto a Vicenza da un paese in guerra (foto in basso). Era il  1996 quando la sensibilità di un gruppo di vicentini diede avvio all’Associazione “Insieme per Sarajevo” con lo scopo di aiutare gli orfani bosniaci. Allora la guerra era ancora una ferita aperta nel cuore dell’Europa, e a portarne il peso erano soprattutto vecchi e bambini. In centinaia negli anni successivi, trascorsero periodi di vacanza presso le famiglie vicentine: “Non famiglie adottive –sottolineavano i responsabili di Insieme per Sarajevo-, ma famiglie-amiche aperte all’incontro”. Di incontri tra bambini di etnie diverse, famiglie che non si conoscevano con storie lontane e drammi nascosti, saranno condivisi per oltre un decennio tra Vicenza e comuni della provincia, con la capitale Sarajevo. “E’ come seminare in un campo sconosciuto –ammoniva allora Sante Bressan, ancora oggi alla guida dell’Associazione, che oggi è impegnata nel sostegno e sviluppo di realtà economiche locali-, con la speranza che i frutti che nasceranno saranno riconosciuti come un valore per il futuro”. Un seme di questi, ha portato frutto proprio questi giorni, vent’anni dopo la guerra e l’aiuto dei vicentini, con le vite di due ragazzi che si sono inestricabilmente unite. Vite a distanza quella di Suvad e Davide, ma con una solida amicizia cresciuta negli anni e sotto le ali protettrici della famiglia Travaglini: “Sta accadendo quello che auspicava Sante Bressan –spiega la mamma di Davide, Margherita Carrer-, quando ai tempi dell’accoglienza diceva che il progetto può dirsi riuscito, solo quando chi abbiamo ospitato inviterà un giorno i nostri figli nella loro terra”. Davide è andato nell’agosto a Sarajevo ospite dell’ amico bosniaco.

Sono lontani i tempi del pericolo. La capitale della Bosnia moderna è una città che pullula di gioventù, con uno smalto ritrovato anche con la recente inaugurazione della restaurata Biblioteca Nazionale incendiata dai  serbi durante la guerra, e rimasta per due decenni una ferita visibile nella città. Davide è tornato a Sarajevo dopo esserci stato per la prima volta con i suoi genitori a due anni, sempre per lo stesso motivo: incontrare Suvad che lui considera come un fratello: “Allora ero un bambino incapace di capire cosa fosse una guerra. Oggi mi considero un ragazzo prossimo alla maturità agraria, desideroso di comprendere cosa sia stata quella guerra” risponde Davide. Suvad invece è diventato insegnante d’inglese presso una scuola statale e fa da guida ai turisti italiani in visita. A loro dice con orgoglio che: “L’Italia è la mia seconda casa”. Entrambi coscienti che le loro vite sarebbero stata diverse senza questo incontro famigliare. Per Suvad resta comunque difficile spiegare ai turisti, come alle nuove generazioni bosniache cui insegna, cosa sia stata quella tragedia. la racconta, lo fa a bocconi per nascondere il troppo dolore che gli torna in mente: “Avevo cinque anni quando scoppiò la guerra e mi trovavo con la mia famiglia a Pale (la città che diventerà la nuova capitale della proclamata Repubblica Srbsca dal 1992 al ’95), come mussulmani – ricorda Suvad- fummo cacciati da casa e costretti per due mesi a vivere nei boschi come animali. Raggiunta Sarajevo, mio padre si arruolò volontario nelle milizie bosniache che difendevano la città. Purtroppo poco dopo sarebbe diventato una delle prime vittime e io uno dei tanti orfani di guerra”. Poi l’assedio: “Quando vivevamo come topi e bruciavamo anche le scarpe per riscaldarci dal freddo”. E gli anni duri di quel dopoguerra  che si trascina fino ai nostri giorni: “Ai turisti che giungono a Sarajevo –racconta il giovane- mostro come cinque luoghi religiosi differenti convivano porta a porta, lasciando senza risposta sul perché  per quatto anni ci si ammazzasse l’un con l’altro in nome della religione e appartenenza etnica”. Sarajevo resta quindi una città senza risposte sul suo passato e futuro. Terra dove oggi i carnefici e le vittime spesso sono costretti a rincontrasi per strada. Dove i rancori e il dolore covano sotto la cenere. Ma per Suvad i bei ricordi sull’Italia e l’Associazione “Insieme per Sarajevo” restano una vivida speranza: “Le famiglie di Vicenza hanno fatto molto per noi. Allora che eravamo piccoli, alcuni di noi non avevano neppure 4 anni, l’Italia significava “Gardaland”. Oggi, il tempo e la crescita ci porta a comprendere come quel portarci fuori dalla nostra quotidianità, fosse un modo per educarci a costruire un futuro diverso per la nostra Bosnia”.

Non tutte le famiglie però vantano la fortuna di Suvad e Davide. Non tutti i bambini una volta cresciuti si sono rivisti o mantengono rapporti così saldi. “Il clima del dopoguerra a Sarajevo non è stato facile –spiega il presidente Bressan-, e le dinamiche famigliari hanno avuto spesso difficoltà insormontabili, anche per i traumi dei bambini stessi. Il nostro impegno fu una goccia nell’oceano. Ma se anche una di queste gocce fosse servita come nel caso di Suvad e Davide, a diventare rivolo e poi fiume di speranza, possiamo affermare con soddisfazione che il tempo e la storia, oggi ci hanno dato ragione”. 

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