SOTTO LA TERRA DELLA BIBBIA

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LA BIBBIA DI PIETRA   

Don Gianantonio Urbani, è l’unico vicentino e tra i pochi sub-archeologi italiani ad insegnare al “Biblicum” di Gerusalemme. Con lui abbiamo parlato delle ultime scoperte e restauri che stanno dando nuovo smalto ai luoghi biblici.


Viene difficile anche e solo pensarlo, che a Gerusalemme oggi vi sia tra gli ebrei ultraortodossi, chi inscena rituali identici a quelli che si svolgevano duemila anni fa, con la certezza di vedere presto l’edificazione dell’antico Tempio, distrutto dai romani. Si raccolgono fondi e progetti e c’è chi giura che sia tutto pronto per riportare la storia del popolo di Israele, dove si è fatta la storia. Una storia sempre più documentata grazie all’archeologia biblica, alla costante ricerca delle tracce di quel sacro divenuto segno. E i segni in Israele non mancano, a partire da Betlemme, terra del pane e nomadi popolazioni. 
Luogo sacro a cristiani e mussulmani, dove nella millenaria Basilica della Natività, si custodisce la grotta dove secondo la tradizione sarebbe nato Gesù. Un luogo caro alla memoria, i cui segni del trascorrere dei secoli sono stati continuamente ricoperti da altri segni. Lo stesso dicasi per il Santo Sepolcro, entrambi oggi oggetto di “storici” restauri, dopo decenni di discussioni e veti incrociati tra cristiani, giunti finalmente a un accordo che ha dato avvio agli agognati lavori. L’intervento conservativo nella Basilica della Natività, è curato da una azienda italiana che sta ridondando splendore ai mosaici della Basilica che custodisce la grotta della Natività. In realtà, tutto il territorio israeliano e palestinese continua a riservare sorprese archeologiche, frutto oggi più che mai di studi incrociati tra nazioni e le stesse religioni. Ne abbiamo parlato con uno dei pochi archeologi italiani, nonché unico vicentino, don Gianantonio Urbani, prete diocesano, che da nove anni è docente presso il prestigioso Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, dove insegna archeologia biblica ed escursioni a Gerusalemme e dintorni.       

 

Come ci si sente a essere l’unico prete-archeologo veneto, passato dalle colline di Marano a quelle della Giudea, come dalla parrocchia agli scavi biblici? «Dieci anni fa partecipai alle esequie del francescano Michele Piccirillo, figura miliare dell’archeologia biblica, e m’interrogai sulla necessità di conoscere meglio la Terra Santa e collaborando con i frati francescani storicamente presenti qui da otto secoli. Quel mio desidero qualche tempo dopo divenne realtà, partendo per Gerusalemme dove inizia l’avventura di studio presso lo Studium Biblicum Franciscanum. Una scelta avvallata da l’allora vescovo di Vicenza mons. Cesare Nosiglia, e successivamente dal successore Beniamino Pizziol. Abbracciai gli studi di padre Francesco Rossi De Gasperis e p.Jacques Fontaine per leggere la Bibbia sulla terra, nel contesto dove essa è venuta a formarsi».

La fede, in uno scavo scientifico può essere d’aiuto o d’intralcio? «La fede nasce dall’ascolto orante delle Scritture. A tante ore di studio e lavoro, vi sono in buona misura altrettanti momenti di preghiera e silenzio. La fede è personale ma è anche un dono da condividere. Se questo stile viene condiviso, allora diventa una marcia in più per partecipare ad uno scavo, con la forza e la passione che viene dalla scienza e dallo spirito. Uno scavo stratigrafico oggi richiede la competenza dei fini e mezzi, che richiede anche molta fatica, considerando il clima politico-religioso e ambientale in cui si opera. Virtù e qualità che ho incontrato in tanti colleghi e amici mi hanno formato e oggi mi aiutano a servire la chiesa e la comunità scientifica in questo modo».

Avere sotto gli occhi l’evidenza dei fatti o dei segni, che significato ha? «È una grande responsabilità che cerco di affrontare con il lavoro di squadra. Allo Studium Biblicum siamo consapevoli di vivere un’importante stagione sulle orme di chi ci ha preceduto ed ha aperto molte strade di studio sui luoghi santi dell’Antico e Nuovo Testamento. Al lavoro esegetico e filologico, si aggiunge il lavoro di studio dei luoghi e dei materiali. I fatti avvenuti, lo studio dei testi e l’analisi della cultura materiale sono un patrimonio straordinario per conoscere il contesto nel quale sono fiorite le Scritture. Mi sento poi fortunato ad avere la possibilità di insegnare le escursioni a Gerusalemme, una sorta di topografia della Città di Dio. Quindi misurazioni, forme di edifici, iscrizioni, diventano segni speciali da leggere per capire come sono vissuti coloro che ci hanno preceduto».

Data la sua conoscenza della lingua ebraica, torniamo sulla recente innovazione al Padre Nostro, con i nostri preti che predicano senza conoscere la lingua madre con cui fu scritto il Libro Sacro. Ci dobbiamo aspettare ulteriori novità in futuro? «Tutti i preti formatisi negli ultimi decenni hanno studiato nella misura di base per conoscere le scritture: l’ebraico, il greco e latino. Qualche traduzione a suo tempo è stata affrettata, così oggi si cerca di essere il più fedeli possibile al testo, senza però stravolgere consuetudini e tradizioni locali. Sul Pater Noster, si sapeva da tempo la forma un po’ particolare della traduzione se confrontata con  i testi in lingua originale. Cosa buona, resta avere un buon commentario per chi legge le Scritture e una valida traduzione della Bibbia, accompagnata da note a piè di pagina».

Quattordici anni fa vidi per la prima volta la Basilica della Natività di Betlemme, oggi l’ho rivista splendere grazie al restauro di maestranze italiane. Come valuta questo intervento, e quali sono le nuove scoperte? «Il grandioso lavoro di restauro fatto in questi anni presso la Basilica della Natività, è un dono per l’umanità. Fu così anche ai suoi albori, e poi durante i vari interventi degli imperatori dopo Costantino il Grande. Un plauso va a tutto lo staff dei giovani e valenti restauratori della Piacenti Spa di Prato, cui sono affidati i restauri delle preziose superfici mosaicate. Allo splendore degli angeli musivi, alle trabeazioni di Giustiniano, alle colonne decorate e dipinte con le scritte e i ritratti degli stessi crociati, vi saranno ancora nuovi frutti. Da anni assistiamo a belle modalità di restituzioni, rispettando l’antico, senza forzare con elementi moderni il restauro. Ricordo quando lessi per la prima volta il rapporto di scavo di padre Bellarmino Bagatti sulla Basilica della Natività, da alcune sue espressioni si capiva quanto fosse ricco questo monumento, sotto le patine stesse lasciate dal tempo, come poi si è visto».

La medesima impressione  di stupore si prova vedendo il “nuovo”  Santo Sepolcro di Gerusalemme. Lei è stato tra i pochi studiosi a poter assistere ai lavori di restauro, potendo osservare ciò che vi era sotto  le lastre marmoree. Ci racconta alcune sue emozioni e osservazioni? «Ho seguito in un paio di occasioni i lavori di restauro parlando più volte con la dott.ssa greca Moropoulou che ha diretto i delicati lavori sotto gli occhi del mondo. Si discusse tantissimo sulla modalità di esecuzione del restauro stesso, e mentre guardavo togliere i marmi di rivestimento per pulirli dai secoli, mi chiedevo se questa fosse la forma più adatta di conservazione. Non avevo le risposte, perché non sono un restauratore, ma sinceramente in cuor mio avrei agito come gli antichi. Avrei cioè mostrato di più l’autentica roccia santa del “banco” su cui venne appoggiato il corpo di Gesù, ripristinando le cancellate come era per la chiesa costantiniana dell’Anastasis. Da archeologo, quando entro nella Basilica chiudo gli occhi e m’immagino come fosse questo luogo alle origini: vedo molta roccia e tante pietre lavorate e riutilizzate. Il giardino, le tombe e lo sperone del Calvario, incluse le cisterne e la porta d’uscita dalla città. Da cristiano mi pare ancora di sentire l’eco della voce di Maria di Magdala che grida: “È risorto…!”».

Secondo Lei il futuro riserverà ancora delle significative scoperte archeologiche in Terra Santa? «Questo è tempo di grandi “restituzioni”, perché l’archeologia nelle terre bibliche è sempre stata sconfinata, grazie alle tante popolazioni che vi sono transitate. Generazioni di archeologi sono stati pionieri di questa enormità di scoperte, che continuerà ad offrirci in futuro altre sorprese».

Quanto è cambiata (se è cambiata) la sua vita in virtù di questa sua professione che esercita anche sott’acqua, visto il brevetto di archeologo sottomarino? «E’ cambiata nel senso che svolgo di più attività accademica e un po’meno quella pastorale. In terra vicentina sono stato con i ragazzi e gli educatori dell’ACR che non dimentico perché fu una stagione di grande gioia e dedizione. Oggi mi metto a disposizione affinché un maggior numero di persone possano scoprire la Terra Santa, con la sua archeologia e geografia che porta il segno del mistero di Dio. Ho accostato la passione subacquea all’archeologia delle acque qualche anno fa per capire le rotte antiche delle navi dall’Italia verso Oriente. Immergermi, raggiungendo l’assenza di gravità, è un’esperienza di silenzio e tranquillità come fosse una sorta di ritiro spirituale. Nell’apprendimento, ho avuto maestri importanti che mi hanno dimostrato come anticamente  le rotte non avessero solo l’unico scopo di commerciare materiali. Ma anche di esportare, importare e scambiare conoscenze, idee, usi e costumi. Questi movimenti di persone permisero il diffondersi in Occidente della buona notizia di Gesù di Nazareth. Il Mediterraneo antico resta così un grande serbatoio di idee e scambi tra i popoli. Questo c’insegna l’archeologia moderna. Una lezione dalla storia, che faremmo bene non dimenticare».

MANCUSO: LE PIANTE “PENSANO” A NOI

di Antonio Gregolin copyright@ntonioGregolin 2019

“LE PIANTE  PENSANO E  CI SALVERANNO”

Intervista allo scienziato Stefano Mancuso, pioniere della neurobiologia vegetale che spiega come le piante saranno (ancora una volta) artefici della nostra stessa sopravvivenza in questo fragile pianeta. 

La cosa certa, vedendo lo scempio di  potature cui sono soggetti gli alberi,  è difficile anche e solo parlare di’intelligenza. Ancor di più se gli “intelligenti” sono proprio gli alberi e le piante in generale. Sì, perché sempre più convintamente la scienza ci sta dimostrando come le piante abbiano capacità per noi inimmaginabili, al punto che un nuovo mondo sembra essere appena stato scoperto: la neurobiologia vegetale. Pioniere di questa branca scientifica è il pisano  Stefano Mancuso, che dirige il Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale (LINV), dell’Università degli Studi di Firenze, inserito nella liste dei 20 italiani che possono cambiarci la vita.Il New Yorker l’ha inserito nell’elenco dei world changers. Divulgatore e scrittore, é ormai un volto noto al piccolo schermo. A lui abbiamo chiesto di spiegarci perché i vegetali possono essere determinanti nella lotta contro l’inquinamento come per la nostra stessa sopravvivenza. Con risposte che vi stupiranno!

Iniziamo col capire, cosa sia la neurobiologia vegetale? «La neurobiologia vegetale l’abbiamo inventata noi, nei nostri laboratori. Durante il mio dottorato studiavo soprattutto la radice e mi accorsi che aveva dei comportamenti non molto dissimili da quelli di un animale come un verme: era in grado di percepire gli ostacoli prima ancora di arrivarci, di circumnavigarli, di prendere decisioni se andare da una parte o dall’altra. Da lì iniziai a guardare le piante da un punto di vista differente.La neurobiologia vegetale studia i segnali e la comunicazione presente nelle piante a tutti i livelli di organizzazione biologica, dalla singola molecola alle comunità ecologiche, cioè come le piante possano riuscire a ricevere dei segnali dall’ambiente, rielaborando le informazioni e calcolando le soluzioni adatte alla propria sopravvivenza. E’ una disciplina neonata e osteggiata da molti, che riserverà molte scoperte nel futuro prossimo».

Ha detto che le piante “pensano”? «Capiamoci, non nella forma che intendiamo noi umani, ma interagiscono tra loro con veri e propri linguaggi. Comprendo che questa possa sembrare una novità, ma gli alberi usano una forma di comunicazione da milioni di anni. Molto, ma molto prima di noi primati. Purtroppo, la nostra forma di comunicazione è sufficiente per distruggerli o violentarli sistematicamente come noi facciamo con gli alberi!  Le piante hanno vere e proprie reti viventi, capaci di sopravvivere a eventi catastrofici senza perdere di funzionalità. Sono organismi molto più resistenti e moderni degli animali. Perfetto connubio tra solidità e flessibilità, le piante hanno straordinarie capacità di adattamento, grazie alle quali possono vivere in ambienti estremi assorbendo l’umidità dell’aria, mimetizzarsi per sfuggire ai predatori e muoversi senza consumare energia. La loro struttura corporea modulare è una fonte di continua ispirazione in architettura. E ancora: producono molecole chimiche di cui si servono per manipolare il comportamento degli animali (e degli umani) e la loro raffinata rete radicale formata da apici che esplorano l’ambiente può tradursi in concrete applicazioni della robotica. Sappiamo ormai che allevare vegetali nello spazio è un requisito necessario per continuare a esplorarlo, e spostare parte della nostra capacità produttiva negli oceani grazie a serre galleggianti come Jellyfish Barge, che può essere una soluzione per soddisfare la nostra crescente richiesta di cibo. Organismi sociali sofisticati ed evoluti che offrono la soluzione a molti problemi tecnologici, le piante fanno parte a pieno titolo della comunità dei viventi. Se vogliamo migliorare la nostra vita non possiamo fare a meno di ispirarci al mondo vegetale».

Come, le piante ci parlano?  «Il modello vegetale è diverso da noi, ed è in grado di percepire prima i mutamenti e di adattarsi. Nelle piante, infatti, l’epigenetica ha un’importanza enorme: se una pianta cresce in un ambiente più caldo e con meno acqua, per esempio, imparerà come resistere e lascerà questa conoscenza alla generazione figlia. Se poi la generazione successiva non sarà sottoposta a questi problemi, perderà l’informazione. Pensiamo ai cambiamenti climatici: in un ambiente in continuo riscaldamento, fino a quando ci sarà un limite possibile di vita, le piante si adatteranno e produrranno dei figli sempre più adatti a quell’ambiente. Cosa che gli animali non si possono sognare di fare: noi siamo sempre lì, in mano a una mutazione favorevole e rarissima.
Penso che il nostro futuro dovrebbe essere affidato a un modello di tipo vegetale. Continuando a utilizzare il nostro modello, che si basa sul movimento e sul consumo, e non sulla produzione, abbiamo portato al limite estremo l’idea stessa di animale. Ci stiamo mangiando il pianeta. Se vogliamo continuare come specie il nostro futuro, questo deve essere vegetale. Quando si dice che nel 2050 saremo dieci miliardi, tutti si chiedono sgomenti come farà questo pianeta a mantenerci tutti. Io penso sempre una cosa opposta: che bello che saremo 10 miliardi, perché se riusciremo ad agire come una colonia, come le piante, avremo 3 miliardi e mezzo di persone in più rispetto a oggi che pensano e sono in grado di risolvere problemi. La vera risposta al nostro futuro è, insieme a tante altre, dare la possibilità a tutte le persone che nascono di poter dare la soluzione. Ecco perché il modello vegetale è importante mentre la gerarchia è contro l’innovazione: la gerarchia riduce il numero delle soluzioni a quelle che possono essere pensate da un numero ridottissimo di persone. Nel 1992 Nature ha pubblicato un lavoro strepitoso in cui ha dimostrato che le decisioni prese in gruppo sono sempre migliori di quelle prese dal più esperto del gruppo. Questo è il sistema con il quale le piante prendono le decisioni: distribuito, non gerarchico, con un grandissimo vantaggio di essere creativo e di portare innovazione».

Fantastico e fantascientifico nel contempo! «Forse varrebbe la pena di smettere di far fuori biodiversità vegetale. Forse potremmo chiederci se l’agricoltura intensiva, oltre a esaurire il suolo e a desertificarlo, non renda le piante “più stupide”, cioè più incapaci di reagire in modo autonomo alle avversità esterne. Forse, soprattutto, dovremmo recuperare rispetto e meraviglia per la vita che ci circonda, animale e vegetale. E ricordarci che abitiamo il nostro pianeta non da soli, e che il pianeta non è per niente solo “nostro. Di sicuro non possiamo continuare a tagliare tremila ettari di foresta al giorno. Conosciamo il 20-30 per cento delle piante sul pianeta. Di queste, il 70 per cento è in via di estinzione. Noi usiamo energia e farmaci che vengono dalle piante. Noi dipendiamo dalle piante, e non possiamo dimenticarcene”.

Le piante potranno aiutarci nella lotta al cambiamento climatico e l’inquinamento ? «Non lo si può combattere in altra maniera che attraverso le piante. Dovremmo piantarne il più possibile perché assorbono CO2. Mettere più piante possibile è l’unico sistema per abbassare l’anidride carbonica già presente nell’aria, polveri sottili e altri inquinanti. Ci sono una miriade di soluzioni  studiate osservando le piante, già pronte per essere traslate in forma tecnologica. Non lo facciamo perché non vediamo in questi organismi nulla di complesso, di utile. Se invece riuscissimo a imitare la fotosintesi, tutti i nostri problemi svanirebbero. Ma i laboratori che la studiano seriamente saranno 4 o 5: com’è possibile che in un mondo che ha necessità energetica e si scanna per il petrolio non si studi la fotosintesi per tentare di replicarla? E poi ci sono tutti i meccanismi e i materiali: tantissimi movimenti delle piante sono frutto di com’è fatto il materiale. Noi per muoverci spendiamo energia e di conseguenza abbiamo costruito così tutte le nostre macchine. Ma non è l’unico modo.

 Le piante producono movimenti senza utilizzare energia interna ma quella dell’ambiente. Questo è un altro cambio di prospettiva enorme. La pigna si apre e si chiude in base all’umidità e questa apertura e chiusura è in funzione esclusivamente di come sono messe le fibre con le quali è costruita. Perché non facciamo i materiali nella stessa maniera? Potremmo fare tante cose, non solo in funzione dell’umidità ma anche della luce, della temperatura… Da come fare le organizzazioni sociali o aziendali a come costruire i materiali, da come prendere l’energia a come non spenderla, tutto è già stato inventato dalle piante. Finora ci siamo ispirati soltanto agli animali, se voltassimo gli occhi verso quel 98% di esseri viventi che non abbiamo mai guardato potremmo scoprire una miniera di possibilità per sperare di poter sopravvivere in questo pianeta, ormai sull’orlo del collasso».

TRA FANTASIA ED ECOLOGIA: reportage 2018

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FANTASIA SENZA ALBERI

Uno speciale reportage natalizio, tra le foreste abbattute dalle forza del vento. Quando l’ecologia parla di fantasia.

Altopiano Asiago

Proprio così: questo è il Natale che non vorremmo. Non vorremmo vedere gli abeti trasformati in un tappeto di legno. Non vorremmo vedere le montagne spogliate delle loro foreste. I paesi scolpiti dalla forza del vento. I boscaioli e falegnami, preoccupati per il loro destino. I paesaggi cancellati. I meteorologi sconcertati. I politici con la solita nenia: “Non vi lasceremo soli!”. La stessa fantasia, scippata del suo contesto naturale. Quanto accaduto nell’ottobre scorso sulle nostre montagne, non è più un avvertimento sporadico, ma una conseguenza del repentino cambiamento globale. La ciclicità di questi “eventi estremi” è divenuta una costante, con le risposte della comunità internazionale in materia ambientale che tardano a venire, rimandandole nel tempo. L’ultimo caso è il summit COP24 di Kracovia in Polonia, appena conclusosi con impegni di facciata, un nulla di fatto, come se il futuro del pianeta e nostro, fosse frutto di un compromesso.

Val di Fiemme

Stiamo noi stessi diventando resilienti alle catastrofi, scervellandoci semmai sui nomi da attribuire a questo o quell’evento per poi consegnarlo alla breve memoria. Per settimane si è discusso sulla classificazione da dare al “vento estremo” che ha spazzolato le montagne venete e trentine. Alla fine, la scelta tra gli studiosi è andata su “tornado e/o tromba d’aria” che ha sradicato tredici milioni di abeti. Numeri da ecatombe, con scenari di guerra e scenari fin’ora mai ipotizzati. E pensare che la lungimirante fantasia del bellunese Dino Buzzati, nel 1935 ne “Il Segreto del bosco Vecchio” parlava di una forza spaventosa “il vento Matteo”, rinchiusa e poi liberata da un antro delle Dolomiti. Simbolico linguaggio, certo, ma che alla visione dei fatti prende corpo e forma, dando alla favola il senso di una triste parabola per il nostro presente e futuro. “Hanno liberato il vento Matteo…” fa dire Buzzati alle creature terrorizzate del bosco. 

Val Formica

E quel vento pare davvero essersi materializzato. “Torneranno le foreste e i prati?”, potremmo parafrasare citando l’omonimo film di Ermanno Olmi, girato per buona parte tra i boschi di Val Formica, oggi barbarizzati dal vento. Ha parlato di alberi anche un altro nostro grande montanaro, Mario Rigoni Stern, che così scriveva: «Tra i rami dei grandi alberi mi sono arrampicato per guardare il cielo. A loro devo la mia vita…». Il poeta Andrea Zanzotto, uomo di pianura, che volgeva lo sguardo verso la Pedemontana, ci offriva versi e riflessioni sul mutar del paesaggio:«Siamo passati dai campi di sterminio. Allo sterminio dei campi!» ammoniva con pragmatica saggezza.

Val di Fiemme

Non voglio attingere alla troppa fantasia per immaginare cosa queste figure del passato, più che mai vive nella memoria, avrebbero detto su questo “fenomeno estremo” di cui siamo testimoni. Loro che il bosco lo vivevano come creatura, e non solo come oggetto economico. Che sentivano le foreste come casa e tempio, com’era fin dall’antichità. Spazi sacri. Luoghi di racconto. Ambienti fantastici. Spazi di poesia sposata con gli alberi. I “filò” poi delle serate invernali a lume di candela nelle stalle, narravano di selve impenetrabili, animate da magiche creature: fate, gnomi, salbanei e omeni selvadeghi, affidati ora solo ai nostalgici dell’infanzia perduta. Oggi, non solo abbiamo perso questa silvestre memoria, ma non riconosciamo più al bosco il suo arcano valore simbolico. Abbiamo disperso così la sua dimensione allusiva, come pure la reale funzione naturale: senza ecologia (cioè la “scienza della casa”) si estinguerebbe la stessa fantasia. Per questo il grande bosco è come la “rosa” de Il Piccolo Principe: un valore che va oltre la materia (il legno), che il Natale fa puntualmente riaffiorare.

“HO IMMAGINATO BABBO NATALE CHE….”

Cadore

Proprio lui, l’immaginifico personaggio vestito di rosso (nato nel 1920 per una necessità meramente consumistica) è affiancato al simbolo stesso del Natale: l’abete (l’antico albero della vita e luce invernale). L’albero del dopoguerra, capace di cancellare le ferite del primo conflitto mondiale. Il mio è stato un pellegrinaggio fotografico, dall’Altopiano di Asiago, all’Agordino Cadorino, fino alla Val di Fiemme, colpite da un altro genere di guerra. Ma pur sempre una guerra: quella climatica. Qui ho immaginato di vedere con gli occhi della fantasia (di Babbo Natale) la devastazione arrecata. Le immagini che ne sono scaturite, vogliono essere una provocazione che va oltre l’apparenza. Una metafora di stretta attualità: con il simbolo che scruta quello che gli occhi faticano a vedere.

Asiago

Talmente grande e grave il danno naturale in questi territori, che tutto ciò che si è visto in Tv e giornali, che non basta a descriverne la realtà. Ecco perché l’invito qui è una forma di cultura e sensibilità: andate a vedere dal vivo questi luoghi. Solo così toccherete con mano cosa sia il “global warming”, il cambiamento climatico. Ultima frontiera prima della nostra stessa estinzione. L’appello lo rivolgo in particolar alle scuole e insegnanti, perché salgano in montagna, per un’uscita didattica. Non farlo sarebbe un’occasione persa. Una speranza in meno per accrescere la coscienza civile-ambientale sugli scenari futuri che ci spettano. Come pure un pellegrinaggio laico alla cultura del bosco perduto, che tornerà, forse, con gli alberi che verranno ripiantati per le generazioni che verranno.

GALLERIA DELLA CAMPAGNA

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MONTEGALDELLA

CALDOGNO

DIFESA DEL POPOLO

DIFESA DEL POPOLO2

 

Montegaldella

GRISIGNANO DI ZOCCO